La voce dell’artigliere: liberate De Lorenzi, lì sotto non ce la fa più
Il 7 maggio 1976 il soldato fu estratto dalle macerie della caserma “Goi-Pantanali” di Gemona, dopo un inferno durato più di 14 ore
di Flavia Virilli
UDINE. «Tirate fuori De Lorenzi che non ce la fa più», queste le ultime parole che l’artigliere Floreano De Lorenzi ricorda di aver udito il 7 maggio 1976, prima di essere estratto dalle macerie della caserma “Goi-Pantanali” di Gemona, dopo un inferno durato più di 14 ore.
A pronunciare quelle parole fu Federico Luison, non appena fu tratto in salvo dai soccorritori. Lo stesso disse Amedeo Sottana, che gli giaceva accanto. L’aiuto di questi due compagni d’armi, sepolti con De Lorenzi sotto a quello che restava della palazzina del Gruppo “Udine”, 3° reggimento di Artiglieria da montagna della Julia, fece la differenza tra la vita e la morte.
A 40 anni da quella terribile notte, De Lorenzi continua a udire come se fosse oggi quelle parole: «L’amico Luison ci invitava a restare calmi e a pregare, lo sentivo, ne traevo beneficio ma non riuscivo a rispondergli. Non riuscivo a comunicare con nessuno».
In quelle ore, l’artigliere sperava di uscire vivo e di ringraziare chi gli aveva permesso di rimanere lucido mentre combatteva con il dolore e la paura di non farcela. Analogo il sentimento dei suoi commilitoni, le cui voci si spegnevano una dopo l’altra nel buio e nella polvere.
De Lorenzi si salvò e il suo primo desiderio, non appena le forze glielo avessero consentito, era proprio quello di cercare Luison. Mai avrebbe immaginato che non lo avrebbe più rivisto, Federico morì alcuni giorni dopo il ricovero in ospedale per i gravi traumi subiti.
A dargli la triste notizia, mentre era ancora immobilizzato a letto, fu il colonnello Umberto Tomadoni - allora capitano - il quale aveva seguito senza sosta le operazioni di soccorso.
Sono ricordi dolorosi, dei quali è difficile parlare. De Lorenzi lo sa bene, le ferite che segnano il suo corpo non gli hanno permesso di dimenticare quella notte e oggi come allora continua a udire le parole di Luison.
La sera del 6 maggio era arrivato in caserma poco prima delle nove, si stese sul letto e avvertì la prima scossa. Il boato che la precedette era analogo al “ruggito” della frana del Vajont che aveva udito a soli 8 anni quando abitava a Casso.
Si preoccupò. Incitò i compagni a scappare, ma quando si rese conto che molti non lo seguivano rientrò in camerata per chiamarli. Qui fu colto dalla seconda interminabile scossa e si ritrovò sepolto sotto a un groviglio di macerie.
A distanza di 40 anni De Lorenzi non ricorda solo la sofferenza, nella sua mente è ancora viva la profonda gratitudine nei confronti dei suoi commilitoni e dei soccorritori che hanno lavorato, incessantemente, ore e ore per salvarlo, rischiando, a ogni scossa di assestamento, la loro stessa vita.
È per questo che, tutti gli anni, partecipa alla commemorazione che immancabilmente viene organizzata alla “Goi”. Lo ritiene, come Amedeo Sottana, un obbligo: «Onorare la memoria di quelle giovani vite - conclude - è un dovere».
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