GEMONA. Come si fa ad accettare i disastri che provoca un terremoto? Si possono superare i lutti? Sì, se si riparte e si conserva quello che è rimasto. Se si ricompongono i tasselli della storia. Nella ricostruzione dei comuni distrutti dal sisma del 1976, i friulani intuirono che quella era la linea da seguire: in alcuni luoghi l’operazione riuscì, in altri, invece, chi quella notte perse gli affetti più cari, stenta ancora a riconoscersi.
Studiosi di fama internazionale hanno sviscerato il tema nel corso del convegno organizzato dall’Auser di Gemona, l’associazione per l’invecchiamento attivo, nella fase conclusiva delle commemorazioni del quarantennale del terremoto. Un confronto a 360 gradi voluto dai leader dell’Auser, il presidente Bruno Serravalli e Claudio Sangoi, per «individuare le radici e le motivazioni che hanno prodotto la forza d’animo dimostrata dai friulani in quella terribile stagione.
«Il nostro merito - ha evidenziato Sangoi spiegando il perché del convegno - fu l’aver capito che i valori e i principi divenuti “immagine” della nostra identità, del nostro modo di essere e di vivere, potevano diventare un formidabile “assist” per le future generazioni, innovando tecniche e interpretazioni, con la conoscenza».Ragionamenti profondi ancorati alla lenghe furlane, alla donna, «sottovalutata ma fondamentale, con ed ancor più in assenza dell’uomo». Alla conoscenza del territorio, al senso del sacro, del sacrificio e della fede, «in un contesto in cui le autorità, che avevano il potere, dimostravano difficoltà nel gestire sentimenti ed emozioni». In altre parole, di fronte alla distruzione il popolo ripartì dalla sua identità, cercò le motivazioni nella sua storia millenaria per evitare le new town e per ricostruire i paesi dov’erano e com’erano.
L’esempio non può che essere Venzone con le nove mila pietre del duomo ricollocate seguendo le antiche collocazioni e il centro storico rifatto per anastilosi. «Un piccolo manipolo di giovani studiosi si ritrovò a Venzone con l’intento di far agire le proprie competenze nell’epicentro della catastrofe», ha ricordato il professor Remo Cacitti, facendo riferimento al Comitato di coordinamento per il recupero dei beni culturali, che lui stesso dirigeva, i cui componenti fermarono le ruspe impegnate nelle demolizioni e si prodigarono per catalogare anche le macerie. «Progettavamo - ha aggiunto il docente di Storia del Cristianesimo - una città che sapesse tornare ad accogliere le vestigia del suo passato per poterle non soltanto fruire, ma valorizzare a testimonianza di un segmento importante della storia friulana».
Agli occhi di tutti il progetto è riuscito, ma nonostante ciò Cacitti non ha esitato a porre una domanda intrigrante: «Possiamo ritenere definitivamente risolta l’elaborazione del lutto che ha determinato la ricomposizione di Venzone?». No, fino a quando, questa è sempre la tesi di Cacitti, non sarà riedificata la chiesa di San Giovanni, riaperto il Centro di documentazione sul terremoto, non verrà allestito il Museo della terra di Venzone e regolamentata la viabilità entro le mura.
E se l’obiettivo è recuperare l’anima dei luoghi, Snagoi nella sua testimonianza affidata a Franco Vaia, ha lasciato chiaramente intendere che «il centro storico di Gemona è diventato un “non luogo” per viverci, e nemmeno è un adeguato palcoscenico di livello, per manifestazioni culturali, rapporti commerciali o incontri sociali. Non esprime lo spirito trainante e forte, l’anima identitaria, individuale e comunitaria, propri di una città viva e vitale».
Sangoi è giunto a questa considerazione attraverso la toccante testimonianza di quella notte in cui perse due figli. Nel documento letto da Vaia ha descritto il recupero del corpo di Giulia: «Insieme con altre mani accogliamo Giulia. Ha compiuto sei anni un mese prima. Mi lascia con un sorriso dolce e sereno, che conservo nel mio segreto». Sotto le macerie Sangoi perse pure i genitori, recuperò l’altra figlia e la moglie. La donna era ferita, ma ce la fece. «Guardo Luca. Ha i capelli corti - si legge ancora nella testimonianza -, come vogliono i suoi 10 anni. Veste un pigiamino di cotone a quadretti rossi e verde. Pare dormire».
Non è facile esternare questi pensieri, l’ha riconosciuto anche il ricercatore dell’università di Udine, Cristiano Crescentini, spiegando come «il cervello permetta di elaborare il dolore e il lutto». Sul bisogno di ricostruire la comunità si è soffermato pure il docente di Storia moderna all’università di Trieste, Michele Cassese, e il giornalista Gianpaolo Carbonetto, moderando la tre giorni di studi che chiude con un segno tangibile la commemorazione del quarantennale del terremoto.
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