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Un anno senza Giulio, i suoi occhi come frecce vive

di Anna Buttazzoni
4 minuti di lettura

Aveva gli occhi spalancati sul mondo. La curiosità di sapere, la voglia di comprendere e ascoltare gli altri. Studiava al Cairo Giulio Regeni e al Cairo è stato tradito da ciò che amava, il suo lavoro di ricercatore sulle tracce del sistema del sindacato egiziano. Non solo tradito. Sequestrato, torturato senza pietà, ucciso e poi infangato dai diversi tentativi delle autorità egiziane di depistare le indagini e di raccontare un figlio diverso da quello nato e cresciuto tra Fiumicello e il mondo.

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Giulio Regeni è diventato il “caso Regeni”. A far conoscere quel giovane che al Cairo il 15 gennaio aveva compiuto 28 anni, festeggiati con alcuni amici in un bar, sono stati mamma Paola e papà Claudio, che nell’ultimo anno, con riservatezza e dignità, hanno tratteggiato uno scampolo alla volta il puzzle della vita del ricercatore.

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Regeni sceglie la strada del mondo 11 anni prima. Fiumicello è il nido, la base dove ritrovare la famiglia in mezzo a tanti viaggi. Parla inglese, spagnolo, arabo e studiava all’università di Cambridge. A settembre con i suoi professori decide di volare in Egitto per una ricerca sui sindacati, sul lavoro.

Il 25 gennaio 2016 al Cairo si celebra il quinto anniversario della rivoluzione che nel 2011 ha portato alla caduta dell’allora presidente Hosni Mubarak. La città è piena di poliziotti. Giulio è tranquillo, così riferisce la madre che il giorno prima, via Skype, parla con lui, due ore, della sua ricerca, del lavoro di cui è soddisfatto, degli ultimi contatti avuti con la sua tutor di Cambridge, Maha Abdelrahman. È la terza volta che il giovane va in Egitto. E «non ritenevamo l’Egitto più pericoloso di tanti altri Paesi – ha raccontato la madre –. Giulio era prudente. Era lì come ricercatore: credeva nella ricerca come emancipazione dell’uomo e della donna».

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Ma alle 19.41 del 25 gennaio di lui si perdono le tracce. Esce dal suo appartamento, nel quartiere di Dokki, un quartiere residenziale, perché ha appuntamento vicino a piazza Tahrir con Gennaro Gervasio, professore di scienze politiche all’università britannica del Cairo. Gervasio non vede arrivare l’amico. Dalle 19.51 in poi lo chiama e richiama al cellulare, sempre spento. È Gervasio, tra le 22.30 e le 23 della sera, a lanciare l’allarme, contattando l’allora ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari.

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I genitori di Regeni vengono avvisati della scomparsa del figlio nel pomeriggio di mercoledì 27 gennaio, con una telefonata della console italiana al Cairo, Alessandra Tognonato. Sabato 30 Paola e Claudio raggiungono la capitale egiziana e si sistemano nell’appartamento di Giulio, tra le sue cose, nel tentativo di trovare indizi e aiutare le ricerche. È il 31 quando la Farnesina dà notizia della scomparsa di un italiano al Cairo. Poco più tardi si scoprirà che è il ricercatore di Fiumicello.

La mobilitazione è immediata, soprattutto sui social, con i messaggi che raggiungono ogni parte del mondo e da ogni parte del mondo parte la richiesta: «Where is Giulio?». Da quel momento emergono i dettagli sul giovane, i suoi studi, la sua voglia di conoscere e di aiutare gli altri, il suo impegno per raccontare il sistema del sindacato. Ogni giorno il dolore aumenta, senza informazioni di rilievo, senza segnali sul ricercatore.

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Fino al 3 febbraio. Il Governo italiano ha organizzato una missione economica al Cairo, con l’allora ministro Federica Guidi e alcuni imprenditori. Alle 20 la cena di gala viene improvvisamente sospesa, senza dare spiegazioni agli ospiti, che vengono invitati a rientrare in albergo. Guidi e Massari raggiungono Dokki e nell’appartamento del giovane tocca a loro dare il dolore più grande ai genitori.

Il cadavere di Giulio Regeni viene trovato sul ciglio dell’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria d’Egitto, buttato sulla ghiaia, nudo dalla cintola in giù. È un corpo straziato dalle torture, da botte, tagli, bruciature di sigaretta. Sarà l’autopsia italiana, pochi giorni dopo, a rivelare che il decesso è avvenuto «per la frattura di una vertebra cervicale causata da un violento colpo». Eppure l’inferno in cui viene gettato Regeni è solo l’inizio.

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Le autorità egiziane da subito cercano di depistare le indagini e di gettare ombre sul friulano. Prima puntano a far passare l’idea che si sia trattato di un incidente stradale, poi interrogano più e più volte i suoi amici incalzando ciascuno di loro con la teoria che il ricercatore fosse gay, rimasto invischiato in una storia finita male. Non è abbastanza. Chi indaga sposta l’attenzione sui servizi segreti e rilancia: «Regeni era una spia». A ogni nuova bugia la famiglia a il Governo italiano rispondono con fermezza, gridando l’esigenza di verità e giustizia.

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Ma l’Egitto non si ferma e l’ultima bugia arriva con le indagini che portano a una banda di criminali comuni, specializzati in rapimenti con riscatto, uccisi durante uno scontro a fuoco. Nessuna pista viene accettata. E poi c’è Cambridge con i professori interrogati – a guidare l’inchiesta è il procuratore capo Giuseppe Pignatone – che non rispondono alle domande. A maggio Massari lascia il Cairo e viene nominato dal Governo rappresentante permanente all’Unione europea.

Al suo posto in Egitto viene indicato Giampaolo Cantini, ex direttore del dipartimento cooperazione e sviluppo della Farnesina, ma Cantini non si è mai insediato, gesto della volontà italiana di non allentare la pressione sull’Egitto. Oggi, con il video inedito in cui il capo del sindacato degli ambulanti egiziani, Mohamed Abdallah, chiede soldi a Regeni per motivi familiari, un sentiero più attendibile sembra tracciato. A Roma il 6 dicembre i genitori di Giulio hanno incontrano il procuratore generale d’Egitto Nabil Ahmed Sadek. È stato lui a garantire che l’indagine non sarà chiusa fino a quando il colpevole dell’omicidio non verrà individuato. La mobilitazione per ottenere verità e giustizia non terminerà.

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La prova resta la più dura per Paola e Claudio Regeni. Dura come le parole pronunciate dalla madre il 29 marzo, al Senato. «Ho l’immagine di lui, di un viso che era diventato piccolo, piccolo, piccolo, che io e Claudio abbiamo baciato e accarezzato. Non vi dico che cosa non hanno fatto a quel viso. Ho visto il male, tutto il male del mondo riversato su lui. Forse l’unica cosa che ho ritrovato di lui, ma l’unica, è stata la punta del naso. Ho pianto pochissimo. Ho il blocco del pianto. Forse mi sbloccherò quando riuscirò a capire che cos’è successo a mio figlio», ha detto la madre. Una madre che vede l’effetto delle torture sul corpo del figlio e aggiunge: «La cosa che mi fa ancora più male è lui che capisce che una porta non si riaprirà più».

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Gibran ha scritto: «Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti». Così Giulio era stato educato. Così spalancò gli occhi sul mondo, senza temere tradimenti.

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