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Il presidente di Amnesty: non ci accontenteremo di una verità di comodo

Noury: siamo davanti a un muro di gomma con qualche fessura. «Non ci sono le condizioni per riportare l’ambasciatore Al Cairo»

di Daniele Lettig
2 minuti di lettura

MILANO. Un anno senza verità: sono passati 365 giorni da quando Giulio Regeni è scomparso al Cairo per finire nelle mani dei suoi torturatori, prima che il suo corpo martoriato fosse rinvenuto ai bordi di una strada della capitale egiziana.

E saranno 365 anche i cartoncini numerati che alzeranno i partecipanti alla manifestazione organizzata da Amnesty International all’università “La Sapienza” di Roma questo pomeriggio: «Vogliamo ricordare Giulio parlando non solo della sua morte, come si è quasi sempre fatto durante quest’anno, ma anche della sua vita: per questo leggeremo alcuni brani che aveva scritto durante i suoi viaggi», spiega il portavoce italiano di Amnesty, Riccardo Noury.

Qual è la sua opinione sugli sviluppi degli ultimi giorni, il video diffuso dalle autorità egiziane e le parti del diario di Regeni pubblicate da L’Espresso?

«Tanto dal video quanto dai diari emerge quanto Giulio fosse una persona onesta, seria e trasparente: questi nuovi documenti rendono inevitabile riconoscere il coinvolgimento nella sua morte di apparati della sicurezza egiziani. Sarebbe importante a questo punto che non ci si fermasse all’individuazione della sola responsabilità personale di alcuni funzionari: il passo decisivo sarebbe arrivare alla catena di comando, scoprire chi ha ordinato e nascosto la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio».

Che giudizio dà del comportamento del capo del sindacato degli ambulanti del Cairo Mohamed Abdallah, che ha filmato la sua ultima conversazione con Regeni e lo ha denunciato alla polizia?

«Credo che prima ancora che Abdallah cominciasse a parlare, a volte anche in modo contraddittorio e smentendo sé stesso, Giulio su di lui avesse detto chiaramente tutto, definendolo nei suoi appunti una “miseria umana”. Io non so se Abdallah parli sotto dettatura, perché è protetto o perché è obbligato: quello che è certo è che non è Abdallah a dirigere il ministero dell’Interno e la polizia, e non è stato Abdallah il protagonista di tutto quel che è successo dal 25 gennaio in poi. Abdallah può solo aver contribuito a rafforzare quel clima di caccia alle streghe in cui la figura di Giulio, ricercatore limpido e trasparente, è stata vista come una minaccia alla sicurezza dello Stato».

Secondo lei, come si è mossa la magistratura per fare luce sulla morte del ricercatore?

«Quella italiana ha svolto un lavoro straordinario. Quella egiziana, al di là della collaborazione formale, si è mossa con l’unico obiettivo di guadagnare tempo. Basti pensare che la richiesta di far visionare agli esperti tedeschi le immagini delle telecamere a circuito chiuso, accettata dalla procura egiziana te giorni fa, era stata avanzata dall’Italia la scorsa primavera. Siamo davanti a un muro di gomma con qualche fessura, da cui ogni tanto filtra qualcosa: se all’inizio lo scopo era il depistaggio, oggi sembra piuttosto quello di prendere tempo, sperando che l’attenzione su questo caso cessi. Che a un certo punto ci si possa accontentare di una verità di comodo, sacrificando qualche funzionario di basso rango in cambio della normalizzazione dei rapporti e del ritorno dell’ambasciatore».

L’Italia fa bene a continuare a non rimandare il suo ambasciatore in Egitto?

«Il motivo fondamentale per cui è stata presa la decisione di richiamare l’ambasciatore, cioè l’assenza di collaborazione sostanziale sul piano delle indagini, oggi è ancora valido. Quando in due occasioni, nello scorso dicembre, dalla Farnesina o da altri luoghi istituzionali sono uscite voci sull’imminente ritorno dell’ambasciatore in Egitto, la Procura di Roma ha dovuto smentire pubblicamente che ci fossero stati passi in avanti significativi, tali da giustificarne il reinvio».

È corretto dire che l’Italia è sola nella richiesta di verità alle autorità egiziane?

«Sì. Di internazionale sulla vicenda di Giulio c’è stata solo la mobilitazione dell’opinione pubblica. Quanto ai governi, compreso quello inglese che sarebbe dovuto essere sensibile alla questione, visto che Giulio studiava a Oxford, di passi ne sono stati fatti ben pochi. Si è detto che Giulio era un cittadino europeo, ma questa è una grossa ipocrisia: se fosse stato vero, gli ambasciatori richiamati avrebbero dovuto essere ventotto, non solo quello italiano. Invece, in coincidenza con il ritorno dell’ambasciatore italiano a Roma, al Cairo arrivava in visita il presidente francese Hollande. Perciò, in parte per l’egoismo dei paesi dell’Unione, in parte per la debolezza italiana, è il nostro Paese a essere isolato, non certo l’Egitto».

A un anno dalla morte di Giulio Regeni, com’è la situazione dei diritti umani in Egitto?

«Peggiore di un anno fa, e peggiore anche degli anni di Mubarak».

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