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Terremoto, non solo un esempio: ecco gli errori del “modello Friuli”

In un libro le riflessioni del segretario alla ricostruzione Chiavola: dalle progettazioni non omogenee al rischio dei costi gonfiati

Giacomina Pellizzari
4 minuti di lettura

Dopo un terremoto per ricostruire in tempi rapidi e senza sprechi il metodo da seguire è quello della concessione. Degli appalti accorpati a cui in Friuli si arrivò dopo aver sperimentato sul campo i problemi della polverizzazione della progettazione e degli affidamenti.

L’ingegner Emanuele Chiavola, segretario generale straordinario per la ricostruzione, non era convinto che «il diverso comportamento del Friuli rispetto al Belice sia dipeso esclusivamente dal decentramento ai Comuni». Il braccio destro del commissario straordinario all’emergenza, Giuseppe Zamberletti, e del presidente della Regione, Antonio Comelli, nel 1981, a cinque anni dal disastro, spiegò il valore degli appalti accorpati in un incontro pubblico elencando «gli inconvenienti, le difficoltà e gli errori» da evitare in presenza di disastri analoghi.

Quella relazione fa parte degli “Atti e documenti sulla ricostruzione delle zone terremotate del Friuli” pubblicati dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, dall’Associazione dei consiglieri e dall’Associazione dei comuni terremotati e sindaci della ricostruzione, in chiusura delle commemorazioni del quarantennale del sisma.

Convinto che la ricostruzione di un luogo non può escludere la riparazione antisismica degli edifici e la conservazione dell’impianto urbanistico, Chiavola descrisse i pro e i contro del modello Friuli destinato ancora a fare scuola. E se oggi il commissario straordinario alla ricostruzione del Centro Italia, Vasco Errani, rileggesse queste pagine troverebbe spunti interessanti, a partire dalla progettazione degli interventi.

In Friuli operarono 54 gruppi composti da 9 professionisti ciascuno e 8 società di progettazione. La loro formazione si rivelò subito complessa, «per le inevitabili pressioni che d’ogni dove giunsero e che – queste le parole di Chiavola – non sempre consentirono una sufficiente selezione. Inoltre fu commesso l’errore di far stipulare singoli contratti tra ciascuno dei 9 componenti e il Comune, senza che vi fosse un responsabile unico. Per cui alcuni gruppi, formatisi senza la dovuta omogeneità, finirono con lo sfaldarsi».

E se attraverso il progetto si voleva garantire la congruità del contributo, l’obiettivo non fu raggiunto «per le pressioni dei singoli e dei sindaci che portarono spesso a non necessari interventi di trasformazione, con creazione di nuove unità abitative. Questo a prescindere dalla possibilità che certi maggiori costi avessero l’obiettivo di appesantire i compensi».

La prevista progettazione per cicli concordati con il Comune cozzò proprio «contro il cosiddetto problema delle priorità, artificiosamente esasperato in sede politica». Ma se questo era un problema marginale non lo era, invece, «la larga disomogeneità nella progettazione, dovuta non solo al diverso grado di preparazione professionale dei singoli, ma anche al diverso modo degli stessi di affrontare un determinato problema tecnico».

Questo fu il grosso nodo che venne al pettine al momento dell’appalto, quando le imprese formarono le squadre di operai su determinate metodologie e dopo poco tempo si trovarono a eseguirne altre completamente diverse. «Non è ammissibile – sottolineò Chiavola – che, riparate tre case con una tecnica, non appena una squadra ne ha appreso la metodologia e può lavorare con buona produttività, si trovi nella quarta casa a dover cambiare sistema e a ricominciare tutto da capo».

La progettazione omogenea, invece, consente di lavorare a catena, con squadre specializzate che passano da un edificio all’altro. «Se non si opera in questo modo – avvertì Chiavola – ci si trova di fronte alle imprese che chiedono maggiori oneri e si va incontro al pericolo che le richieste e il contenzioso che ne può derivare conducano a costi effettivi realmente fuori scala e inaccettabili».

Secondo il segretario straordinario a provocare queste difficoltà fu «il rifiuto sistematico di un ragionevole meccanismo di controllo, in nome della guerra alla burocrazia». Ma Chiavola, pur essendo noto per essere «un feroce nemico dei burocrati», non accettò che venisse utilizzato il «principio della sburocratizzazione per svicolare maliziosamente, perseguendo obiettivi estranei al pubblico interesse».

La guerra alla tecnologia

Chiavola rivolse le sue critiche a quella parte di professionisti che difendeva «una certa funzione di intermediazione obbligatoria, per cui tra l’ente erogatore di un beneficio e il destinatario dello stesso, deve inserirsi, sempre e dovunque, una parcella professionale».

Erano gli stessi professionisti che «in nome della difesa dei cittadini da una presunta massificazione» dichiaravano guerra alla costituzione dei centri pilota di progettazione pubblica e a un sistema di progettazione automatica delle riparazioni. «La difesa a oltranza – aggiunse Chiavola – di certi interessi di categoria, mediante la limitazione giudiziosa e maliziosa delle tecnologie avanzate, non si può comprendere in tempi eccezionali quali quelli di una ricostruzione».

La difesa della Regione

La Regione non rimase certo a guardare. Verificato che i costi delle riparazioni «minacciavano di rompere gli argini, fu fissato per legge un limite superiore di spesa per ciascun alloggio. Si trattò – aggiunse Chiavola – di un provvedimento brutale, dettato dalla necessità e dall’urgenza. Fu il rimedio estremo a una situazione che minacciava di sfuggirci di mano».

Gli appalti

Nella prima fase la polverizzazione della progettazione portò alla polverizzazione degli appalti con imprese non strutturate al meglio per affrontare la ricostruzione. Non a caso Chiavola parlò di «prima fase caotica, durante la quale più di un’impresa ci rimise le penne, accreditando il convincimento che i prezzi regionali fossero largamente sbagliati e che si dovessero concedere consistenti aumenti d’asta».

Basti pensare che nel secondo semestre del 1979 «gli aumenti d’asta richiesti, sui prezzi indicizzati, erano almeno del 30 per cento, con punte fino al 70-80 per cento. A queste condizioni, l’operazione riparazioni non avrebbe avuto alcun senso economico».

Tutto questo succedeva mentre i cittadini sollecitavano l’apertura dei cantieri, la manodopera scarseggiava e l’inflazione galoppava. Ogni mese di ritardo si traduce in miliardi che svanivano. Nacquero così gli appalti accorpati. Chiavola non aveva dubbi: «Bisognava passare dai microappalti, caldeggiati dalle forze economiche locali, ai grossi appalti, accorpando i lavori di più Comuni».

Non fu un’impresa facile. «I Comuni, chiamati a fare fronte unico con la Regione e a cedere a essa la direzione dell’operazione, resistettero a lungo, temendo di perdere l’autonomia operativa. Furono individuati 18 accorpamenti di importo variabile tra 10 e 20 miliardi di lire. Ognuno comprendeva riparazioni di vecchi edifici, nuove costruzioni e opere pubbliche da eseguirsi, mediamente, in tre anni. Gli appalti vennero affidati seguendo una forma intermedia tra la trattativa privata e la licitazione.

A Venzone l'inedito: filmato di un'ora nei paesi distrutti

Immagini inedite, girate fra giugno e luglio 1976 sui luoghi dell’emergenza dall’architetto veneziano Paolo Cardazzo, figlio di Carlo Cardazzo, gallerista ed editore fra i maggiori protagonisti dell’arte contemporanea, saranno proiettate domani, alle 17.30, nel salone del palazzo comunale di Venzone, nell’ambito della presentazione del volume “Atti e documenti sulla ricostruzione delle zone terremotate del Friuli” a cura dell’Associazione consiglieri Fvg.

Da appassionato di videoarte e di riprese video, nei mesi di giugno e luglio 1976, Cardazzo venne nel Friuli terremotato e assieme a Romano Perusini e Andrea Varisco, realizzò circa tre ore di immagini fra riprese dal vivo e registrazioni di servizi mandati in onda dalla Rai.

Da queste riprese Cardazzo montò un video di un’ora, “Friuli. Memoria, partecipazione, ricostruzione”, che mostrò a Venezia nell’ambito dell’omonima esposizione nel luglio 1976. Le immagini, parte di una collezione conservata nell’archivio della Galleria del Cavallino e delle Edizioni del Cavallino a Venezia, sono state digitalizzate dal laboratorio “La camera ottica” dell’università degli studi di Udine, e affidate poi dalla figlia Angelica Cardazzo alla Cineteca del Friuli, che con la collaborazione di Lauro Pittini e il sostegno del Consiglio regionale e della Fondazione Friuli, ha realizzato una versione di 36 minuti. Il filmato contiene immagini di Artegna, Osoppo, Trasaghis, Venzone, Cavazzo Carnico, Gemona e Montenars, con interviste a volontari, amministratori e alla gente comune.

Di particolare interesse le immagini delle tendopoli, un’intervista a Remo Cacitti e un duro intervento di don Francesco Placereani.

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