Vecchioni ai giovani: fate la vostra strada, non abbattetevi mai
Il cantautore e scrittore ospite dell’evento conclusivo della quarta edizione de “La notte dei Lettori” ha fatto il tutto esaurito sotto la Loggia del Lionello
Aurora Milan
UDINE. Cantautore, scrittore, poeta, docente e accanito lettore. E’ considerato il padre della canzone d’autore italiana ma è anche il Sergente York dell’enigmistica La Sibilla. Roberto Vecchioni, ospite dell’evento conclusivo della quarta edizione de La notte dei Lettori “Leggere… con Roberto Vecchioni”, ha fatto il tutto esaurito sotto la Loggia del Lionello, invasa dai lettori udinesi, fan del professore della musica italiana.
rani memorabili come Samarcanda, Luci a San Siro e la canzone trionfatrice a Sanremo 2011 Chiamami ancora amore hanno consacrato la carriera musicale dell’artista che però non ha mai trascurato l’altro suo percorso professionale, portato avanti parallelamente alla sua passione per la musica: l’insegnamento.
Fino alla pensione, avvenuta nel 2000, Vecchioni è stato professore di greco e latino alle superiori, esperienza che l’ha dotato di una profonda conoscenza del mondo dei ragazzi. Un’occasione ghiotta dunque per parlare di lettura ma anche di giovani.
Innanzitutto quali sono stati i libri della Sua infanzia e della Sua adolescenza?
I libri della mia infanzia sono quelli di tutti i bambini e ragazzi della mia generazione. Non c’erano tanti libri quando ero bambino io: adesso si legge molto di più ma forse si scorre molto di più internet. Quando ero piccolo si leggevano favole: i fratelli Grimm, H.C. Andersen, Pinocchio. Ho cominciato molto presto a leggere storie più complesse e più interessanti, intorno ai 10-11 anni. Mi piacevano le filastrocche e le poesie. In seguito sono passato a romanzi un po’ più tosti come quelli di Emilio Salgari ma soprattutto quelli di Jules Verne, che già a 10 anni leggevo e mi piacevano moltissimo.
Ero un bambino romantico e sentimentale: mi piacevano le storie d’amore, soprattutto quelle cavalleresche di principi e principesse. Era anche l’epoca in cui nascevano i fumetti e se ne leggevano tantissimi. Io rappresento l’infanzia del fumetto, che è nato negli anni ’50 in Italia. Ho letto tutte le serie di Captain Miki, di Il grande Blek e di Tex, che cominciavano ad uscire proprio allora. Il fumetto è una cultura particolare della lettura, perché è visiva. Da piccolo con l’immagine riesci a pensare che quelle parole escano veramente dalla bocca dei personaggi: il fumetto non è una cosa staccata dal disegno, lo vedi come una storia cinematografica.
Mentre il cinema è un po’ passivo perché la scena si dipana da sola e va per i fatti suoi, con il fumetto sei attivo perché devi pensare a cosa è accaduto tra un vignetta e l’altra e ricostruire la storia. Questa è la stessa ragione per cui penso che sia attivo il teatro e passivo il cinema, indipendentemente dalla bellezza dei film. Infondo è una questione d’attività e io leggevo tantissimo.
Vecchioni a Udine: "Ecco come ho cercato la felicità e l'ho raccontata nel mio libro"
Nel Suo ultimo libro “La vita che si ama - storie di felicità” Lei racconta episodi legati alla sua carriera di docente di greco e latino: ce n’è uno molto comico e uno drammatico che Le sono rimasti impressi?
Quelli drammatici sono sempre quelli di ragazzi che si sono persi nella droga, per i quali mi sono disperato e ho tentato di fare l’impossibile: uno o due sono riuscito a rimetterli sulla strada giusta ma purtroppo è una battaglia che perdevo quasi sempre.
Gli anni Settanta sono stati anni difficilissimi per gli insegnanti. Di episodi allegri e comici ce n’è tantissimi: ho avuto allievi divertentissimi, spregiudicati; allievi che raccontavano “palle” dalla mattina alla sera e lo sapevo benissimo; allievi con cui andavo a fare lezioni anche fuori, al parco, perché non c’era bisogno di stare in aula, con cui ci si scambiava idee e nozioni: è sempre stato un piacere immenso. Episodi specifici, come sempre succede quando te ne vengono chiesti, non te ne viene nemmeno uno.
Ce ne sono stati: ad esempio episodi di ragazze innamorate, perché quando ero più giovane non ero brutto e quindi la fatica di dover far capire che non era il caso. C’è sempre un transfert tra insegnante e studente soprattutto se l’insegnate ti dice quello che veramente vuoi sentire, lo apprezzi, lo stimi: finisce per essere una specie d’amore, soprattutto quando manca qualcosa in famiglia. Un’ altra cosa che ho sempre tentato di fare è stato dare più importanza alle parole dei ragazzi che a quelle dei genitori: secondo me i genitori sono sempre stati dei gran “pallisti".
Quali sono, secondo Lei, le letture estive da consigliare ai ragazzi come compiti per le vacanze?
Per prima cosa è importantissimo leggere Vecchioni! Direi di leggere cose leggere d’estate. Se non si conoscono autori come Achille Campanile, l’estate potrebbe essere l’occasione per leggere tutto Campanile e capire com’ è nata la comicità cabarettistica in Italia. Oppure consiglio i libri che narrano le avventure di Jeeves, valletto divertentissimo nato dalla penna dello scrittore umoristico inglese P. G. Wodehouse. Poi c’è Gilbert Keith Chesterton, scrittore brillantissimo sottovalutato che non ha scritto solo “Padre Brown”, che tutti conoscono.
Ancora Isaac Asimov, che è sempre da riscoprire sia come scrittore di romanzi di fantascienza, sia come scrittore fisico. Ci si può dedicare al genere giallo classico e riscoprire autori sconosciuti ma che sarebbe bene riprendere come Jonh Dickson Carr. Poi, perché no, riscoprire i grandi autori dell’800 inglese come le sorelle Brontë che davvero sapevano scrivere.
Non sto citando premi Nobel appositamente: sono nomi che si possono leggere tranquillamente. Non consiglio gli autori russi: a mio parere sono la cosa migliore degli ultimi due secoli ma devono essere letti quando se ne ha voglia, non se obbligati.
Qual è un libro must che non si può non aver letto nelle vita secondo Roberto Vecchioni?
Nella vita non si può non aver letto tantissime cose. Fra queste Cent’anni di solitudine di Marquez, Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Finzioni di Borges. Inserirei anche Il nome della rosa di Eco ma i primi tre non si possono tralasciare. Anche Hemingway è d’obbligo.
Una particolare attenzione va riservata agli scrittori sudamericani: una loro particolarità è che,a differenza dei colleghi americani o inglesi, hanno una grandissima capacità di esprimere la forma dando vita a grandi descrizioni e ad un’infiltrazione nell’anima precisa che non rompe mai le scatole.
Gli scrittori americani sono sempre molto giornalistici, riassuntivi, spartani e veloci. Si aborriscano tutte le letture di gialli da seicento pagine alla Dan Brown perché non sono scritti dall’autore in prima persona. L’unico fra questi che si può accettare è Jeffery Deaver: con l’idea geniale del suo Lincoln Rhyme ha portato una novità nel genere giallo.
Secondo Lei perché la lettura non va più di moda tra i giovani e percepisce questo distacco tra i ragazzi di oggi e i libri?
Si, il distacco si percepisce anche se non è così grande come si pensa. La lettura non va più di moda perché va tutto di fretta, la lettura invece è una cosa lenta. Si tratta di una battaglia nostra con il tempo: si pensa che a leggere si perda tempo. Mossi dalla fretta, con la sola visione si pensa di ricevere tutto quello che si leggerebbe in ore. L’errore fondamentale è proprio questo: è la lentezza che fa la bellezza, non la velocità. La nostra generazione vuole vincere subito, e quando si vince subito non si hanno gratificazioni. La lenta sconfitta che porta ad una probabile vittoria ma anche improbabile da un senso alla vita.
Ha un messaggio per i giovani d’oggi?
Non ascoltate quello che dicono i vecchi, perché sono invidiosi e gelosi. Lasciateli perdere completamente: fate la vostra strada, credete a quello che dovete credere e non abbattetevi mai.
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