Omicidio Regeni, Manconi: il nodo irrisolto è sapere chi diede l’ordine
Il senatore dem: tanti depistaggi, quelle della docente-tutor sono responsabilità laterali. «La giustizia italiana non può fare una sola domanda, né interrogare e avere risposte»
di Nicola Corda
ROMA. «La verità è ancora lontana perché il regime di al-Sisi non vuole che emerga il ruolo avuto dagli apparati dello Stato egiziano». Il 25 gennaio del 2016 fu rapito, torturato e ucciso al Cairo, Giulio Regeni: dopo due anni si sa che cosa è accaduto, ma non il perché. Il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei Diritti umani, insiste nel focalizzare l’attenzione sulle vere responsabilità della tragica vicenda.
Senatore, perché sappiamo ancora troppo poco della morte del giovane ricercatore?
«La ragione consiste esattamente in quel frammento di verità che comunque si conosce. Sembra opinione comune che il delitto debba attribuirsi agli apparati egiziani. Che uomini, strutture, mezzi dello Stato e del potere di Al Sisi siano coinvolti prima nel rapimento poi nelle torture e nell’uccisione di Giulio. Se questa consapevolezza molto ampia è così diffusa, fra i genitori, i legali, gli amici e una fetta importante dell’opinione pubblica, si spiega perché oltre questo livello d’intuizione è così difficile andare. Cioè, il perché gli stessi apparati difendano con tutti i mezzi, il fatto che non si possa raggiungere la verità su chi ha dato gli ordini».
Sistematicamente emergono rivelazioni che però hanno il sapore di depistaggi.
«Sì. Pensiamo all’enorme spazio dato a certe cose, come al ruolo avuto dall’università di Cambridge e della tutor di Regeni: sono responsabilità laterali, di sfondo, e invece sono state presentate come se fossero soluzioni. Ci sono forse tante altre piste, tracce. Troviamole, ma non dimentichiamo che il punto centrale è sapere chi diede l’ordine per rapirlo, seviziarlo e ucciderlo».
Nella scarsa collaborazione tra la giustizia italiana ed egiziana cosa non ha funzionato?
«E’ certamente vero che non ha funzionato, ma la difficoltà è che la giustizia italiana in Egitto non può fare una sola domanda, interrogare e avere risposte. Deve agire sempre attraverso gli organi della giustizia egiziana. Nonostante da subito abbia operato con grande serietà e dedizione, cercando di ottenere dei risultati, la procura di Roma non può fare molto di più».
E quindi qual è stato il cortocircuito?
«Per esempio la consegna di quel materiale giudiziario, avvenuta un mese fa invece che 13 mesi prima. Questo dà la misura della mancata cooperazione e con questi ritardi, leggere tutto quel materiale in lingua araba fa passare tempi lunghissimi. E spiega come il regime di al Sisi non voglia che questa verità venga conquistata».
Forse insieme a qualche condizionamento della politica?
«Se mi sta chiedendo se gli interessi italiani in Egitto sono tali da aver impedito la verità, le rispondo sì e no. Gli interessi ci sono e non solo italiani ma geopolitici internazionali e certamente per il ruolo dell’Egitto rispetto alla lotta all’Is. Ovviamente e malauguratamente tutti i governi occidentali hanno operato per non turbare quel rapporto. Ma dare un peso preponderante agli interessi economici dell’Italia rischia di essere consolatorio. In questi conflitti, gli interessi sono reciproci ma purtroppo la difesa di diritti umani viene regolarmente all’ultimo punto dell’agenda dei rapporti internazionali».
Quindi, ritiene sufficiente il ruolo svolto finora dal governo italiano?
«Non giudico il passato, dico che questo è un momento in cui bisogna muoversi con grande saggezza e attenzione. Perciò ritengo che si debba essere molto responsabili e lasciare lo spazio a chi sta trattando».
Per una volta Giulio Regeni non è stato lasciato solo dalla stampa e dalla pubblica opinione.
«Ho visto un’attenzione superiore a quella che si è vista in altre vicende, come per l’uccisione di Andrea Rocchelli (fotoreporter ucciso in Ucraina in circostanze mai chiarite ndc). Comunque era difficile distogliere l’attenzione sulla vicenda: il nome di Giulio vive intensamente nell’opinione pubblica e non è facilmente dimenticabile».
Forse perché è diventato il simbolo delle violazioni di diritti umani e non solo in Egitto?
«Questo gli ha dato più attenzione ma anche perché i genitori di Giulio sono stati un esempio davvero encomiabile di consapevolezza e fin dal primo momento hanno parlato della vicenda collegandola strettamente a quella di migliaia di cittadini egiziani che hanno subito la stessa sorte. Hanno svolto un ruolo etico, sapendo fare della più crudele tragedia privata, la morte di un figlio un’occasione di maturazione civile e di questo dobbiamo essergli tutti grati».
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