L’impresa di Cristiano: «Da un secchio di rape l’idea che ha rinnovato la produzione di botti»
In tutto il mondo i prodotti dell’azienda che ha sede a San Vito al Torre. Ogni anno ne realizza ottomila, ma la lavorazione resta artigianale

Tutto è partito da un secchio. In legno. Serviva per la macerazione delle rape. Commissionato da una signora alla quale aveva appena costruito una scarpiera – sempre in legno –, destinata alla barca ormeggiata al porto di Monfalcone. Pur senza esperienza è riuscito ad accontentarla. Così è nata l’idea che ha dato la svolta alla sua vita. Aveva 20 anni Cristiano Visintini. Classe 1974, originario di Manzano, oggi è il titolare della Mastro Bottaio di Nogaredo, frazione di San Vito al Torre. Con sei dipendenti.
E pure di una sede in Croazia. Altri 13 dipendenti. La sua azienda è specializzata nella realizzazione, rigenerazione e manutenzione di botti. Dal magazzino di via Remis ne partono ogni anno quasi 8 mila: enormi, grandi, piccole e mignon.
Solo negli ultimi quattro anni ha investito oltre un milione di euro nell’ampliamento del magazzino friulano e nell’acquisto di nuovi macchinari destinati oltre confine. Dove avviene la prima parte della produzione e dove è intenzionato ad acquistare un bosco di 125 ettari per reperire la materia prima.
«Ciò che tagliamo viene reimpiantato». Una scelta precisa, di rispetto per l’ambiente prima di tutto. «Abbiamo l’obbligo morale di custodirlo per chi verrà dopo di noi», dice. E il pensiero non può che andare a Maja e Tibor, 7 e 2 anni. I suoi due figli.
Questo è l’«oggi» di Cristiano cui è arrivato mettendosi in gioco in prima persona. Il «prima» è la decisione di fare il falegname. Dopo aver lasciato un impiego da progettista. Il suo percorso di studi, vista la passione giovanile per la robotica e l’automazione, lo aveva portato a specializzarsi in meccatronica. «A un certo punto non riuscivo più a stare davanti a uno schermo. Volevo realizzare ciò che progettavo». Insomma, usare le mani.
È allora decide di abbandonare il posto sicuro per fare il falegname. E proprio il secchio gli fa ancora una volta svoltare strada. La “folgorazione” gli apre gli occhi sul mondo delle botti. «Ma ne sapevo poco o niente». Così comincia a girare per le cantine. Prima vicino casa, sul Collio, poi tra le maggiori aziende agricole del Friuli. L’intento è capire cosa serve ai produttori di vino. E l’importanza del legno per la buona riuscita di alcune produzioni. «Non tutto il vino è adatto per finire in botte», precisa.
È allora comincia a concentrare la sua attenzione sulle barriques. E sulla chimica del legno. E dove guardare se non alla Francia «avanti anni luce in questo settore»? «L’Italia – afferma – non è seconda a nessuno per produzione mondiale di grandi botti». Ma per quelle piccole, è Oltralpe che «sono leader».
Ancora lontana l’era di internet e delle mail a Cristiano non resta che prendere carta e penna. E scrivere alla «Chambre de Mètiers» francese, una sorta di associazione di artigiani. «Volevo andare a lavorare dove si costruiscono le botti». In prima battuta nessuno gli risponde. Ma lui non si scoraggia. E telefona quasi ogni giorno. «Li ho convinti ad assumermi per sfinimento», ricorda sorridendo.
Dopo l’agognato ok, Cristiano, a 20 anni, vende la Vespa per comperare il biglietto d’aereo. Per il momento sola andata. E parte alla volta di una località vicino a Cognac, dove viene assunto come operaio in un’azienda del settore.
«Ogni giorno facevo 8 chilometri di corsa per andare in fabbrica e 8 per tornare all’ostello dove alloggiavo, finché un amico non mi ha prestato una bici». Poi nel week end, spesso in autostop – «In treno solo se avevo i soldi per il biglietto» –, raggiunge l’Università di Bordeaux, 120 chilometri di viaggio. Aveva ottenuto dall’Ateneo il permesso di consultare tutte le ricerche sulla correlazione tra legno e vino. «Correvo a fare le fotocopie e mi mettevo a studiare». Conoscenze che oggi sono alla base del suo lavoro.
«Di solito chi fa le botti conosce poco il vino. E i produttori di vino sanno poco o niente del legno. Ma scegliere la botte con l’essenza più adatta a una varietà di vino fa la differenza». Per questo oggi Cristiano non è solo uno che costruisce e vende botti. Col suo braccio destro Massimo Bergamasco – una lunga esperienza maturata in Austria prima del rientro in Friuli proprio per andare a lavorare dal mastro bottaio –, prima di tutto collabora con i produttori di vino. «L’obiettivo è capire se quel vino è adatto a finire nel legno. Non per tutti è la soluzione ideale».
Ma torniamo in Francia. Dove Cristiano, a suon di sacrifici, resta circa 4 anni. Poi, l’8 aprile 1998, rientra a casa. A Manzano. «Quattro giorni dopo ho aperto la partita iva». E a macchina scrive 600 lettere di presentazione. Firmandole una ad una «Cristiano Visintini Felice (è il suo secondo nome), manutentore di botti». «Avevo intuito che nel settore mancava del tutto l’assistenza».
Poi attacca i bolli e spedisce via posta il suo sogno, in Italia e all’estero. E nel garage di casa improvvisa la sua bottega. «Lavoravo giorno e notte per star dietro alle commesse. Riparavo e rigeneravo botti di ogni dimensione». Nel frattempo, conosce quella che oggi è la sua compagna e mamma dei suoi figli: Marinka Polencic, classe 1976, consulente nel campo vitivinicolo. «Non smettevo mai di lavorare. E lei mi teneva compagnia, seduta su una botte».
Per quattro anni continua a lavorare nello scantinato. Poi nel 2002 nasce la Mastro Bottaio Srl. Acquista un capannone nella zona industriale di Nogaredo, poi anche quello vicino e pure quello dietro. All’inizio in azienda sono solo in due. Lui a far botti come una volta. E Angela, in ufficio. Oggi lo staff si è ampliato, ad aiutare Angela c’è Erika. In produzione, oltre al titolare e al suo braccio destro, ci sono Erik, Mauro e Michele. Con le richieste che piovono da tutto il mondo, Cina e Australia comprese.
«Ci tengo che la lavorazione resti il più possibile artigianale e made in Friuli». Il re è il rovere, quasi 15 specie botaniche diverse». Sì, perché la botte – fatta anche con pregiati legni di acacia, ciliegio selvatico, castagno, frassino e i rari gelso, ginepro, melo e pero selvatico, provenienti da Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Ungheria e Serbia – è solo l’ultimo tassello di un progetto di filiera interamente certificata, che parte proprio dalla ricerca universitaria per la selezione delle piante più vigorose.
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