Gli avevano detto: «Sei inoperabile, ti restano tre mesi di vita», ma a Udine lo hanno salvato
Il racconto di un paziente della provincia di Como operato in Friuli dal professor Risaliti. I medici di illustri istituti lombardi non gli avevano dato speranze
Luana de Francisco
UDINE. «Inoperabile». Una parola pesante come un macigno, quando, di punto in bianco, scopri di avere un tumore grosso già quanto una mela nel fegato e, a 58 anni, con una famiglia e una vita meravigliose, non avevi certo messo in conto di salutare tutti e congedarti dal mondo.
Eppure, è così che i medici di Milano avevano definito il quadro clinico di Flavio Angelinetta, operaio residente a Dongo, sul lago di Como. Con sua moglie, in separata conversazione, erano stati ancora più drammaticamente espliciti: «Signora, gli resta davvero poco tempo, forse tre mesi».
Una seconda fucilata. Ma era stato proprio sull’orlo di quel baratro che lei, all’insaputa del marito, si era aggrappata alla speranza di una via di salvezza. E la luce è arrivata da Udine. È qui, al “Santa Maria della Misericordia”, che la guerra contro il male che stava per ucciderlo è stata combattuta e vinta.
Dall’inizio dell’incubo sono trascorsi nove mesi e al posto del cancro e del suo sinistro corollario di noduli metastatici, ora, c’è anche un fegato nuovo.
Il racconto dei coniugi Angelinetta ruota tutto attorno a un nome: quello del professor Andrea Risaliti, direttore della clinica chirurgica e del Centro trapianti di fegato-rene-pancreas dell’ospedale di Udine.
Lui l’artefice della svolta e, insieme alla sua équipe e a tutto il personale sanitario che li ha assistiti tra visite, ricovero e fasi post operatorie, del percorso di rinascita che ha permesso di annientare i presagi della morte. Una soluzione, quella alternativa alla mera rassegnazione, scoperta quasi per caso.
«Pensi che abbiamo conosciuto il professor Risaliti grazie a un filmato di You Tube – racconta Adria, la moglie –. Dopo quello che ci era stato detto all’Istituto nazionale tumori di Milano e poi anche alla clinica Humanitas di Rozzano, due eccellenze nel settore, invece di darmi per vinta, ho cominciato a scandagliare il web. Non potevo e non volevo credere che non ci fosse davvero più niente da fare».
Era la prima metà del luglio scorso. La notizia della malattia era deflagrata soltanto un mese prima. L’8 giugno, gli esami del sangue disposti annualmente dal datore di lavoro avevano evidenziato un valore del fegato decisamente fuori norma e l’ecografia eseguita quel giorno stesso aveva rivelato la presenza di un tumore di dieci per nove centimetri e di altri 15 noduli tumorali.
Dei successivi consulti dagli specialisti milanesi si è detto. L’unica proposta suggerita era stata il ricorso alla radioembolizzazione.
«Ma, mi spiegarono, si sarebbe trattato di un palliativo e niente più – continua Adria –. Allora mi misi davanti al computer e, all’insaputa di mio marito, che non sapeva del poco tempo che gli avevano pronosticato, cominciai a cercare. Fu così che non mi imbattei in un’intervista al professor Risaliti.
Ripeteva: “Rendiamo operabili i casi inoperabili”. E di fronte a una tale prospettiva, non esitai un attimo a contattarlo. Nel farlo, incontrai la resistenza di Flavio, che diceva di fidarsi soltanto dei medici di Milano. Non gli detti retta e prenotai la visita».
Tempo un paio di giorni e, il 16 luglio, erano già nel suo studio con la documentazione clinica in mano. «Quando vide il cd che gli portammo – continua la moglie –, disse che non c’era un attimo da perdere». Detto e fatto: ricoverato il 23, il paziente fu operato due giorni dopo. E l’intervento, perfettamente riuscito a dispetto della complessità e dei rischi che comportava, è diventato un caso.
Un esempio che continua a essere illustrato a convegni e consessi nazionali e internazionali. Per affrontarlo, il professor Risaliti ha adottato una terapia a tappe.
Nella prima fase, si è lavorato alla riduzione della carica tumorale, procedendo da una parte all’asportazione di metà fegato, e con esso del “bubbone”, e di un altro pezzo a destra, e, dall’altra, con la termoablazione dei noduli tumorali presenti nel fegato residuo (e distrutti attraverso il calore generato dalle microonde).
Una tecnica combinata, quindi, per la cui realizzazione è stato chiamato in sala operatoria il direttore della Radiologia interventistica, dottor Massimo Sponza.
Lo stesso che, qualche settimana dopo, ha eseguito un drenaggio esterno della bile, a seguito del danno permanente per necrosi coagulativa allo scarico biliare, che era stato determinato dalle estese manovre di termoablazione.
Dimesso l’8 settembre, Flavio è tornato a casa con la patente di “trapiantabilità”. Senza più segni clinici di diffusione del tumore e pronto, quindi, ad accogliere un nuovo fegato. L’ora X è scatata il 6 dicembre, mentre si trovava a Udine per uno dei controlli mensili.
Passaggio tutt’altro che scontato anche questo, ma a sua volta pienamente riuscito. Come conferma lui stesso, radioso nonostante i 25 chili persi (di cui 10 già recuperati) e infinitamente grato a tutti, dalla Chirurgia alle Terapie intensiva e semintensiva.
«Devo a loro se sono ancora qui – dice –. Ma ancora non mi spiego come sia possibile che le strutture di Milano non sappiano che, a Udine, ciò che loro considerano inoperabile viene invece affrontato e risolto». Forse la risposta è più semplice di quel che sembri.
«Sa cosa mi dissero quando, per correttezza, li chiamai per comunicare che ci eravamo rivolti a Udine – ricorda la moglie –? Mi definirono una “spregiudicata”, affermando che non sapevo a cosa andavo incontro. Ora lo so.
E aggiungo che neppure l’ospitalità ha eguali: per tutta la durata del ricovero, a me e alle nostre due figlie Elisa e Laura è stato messo a disposizione un alloggio dall’associazione “Casa Mia”.
Sono cose che aiutano moltissimo. Così come la condivisione del dolore con gli altri parenti e la certezza di un’assistenza continua e altamente professionale. Lo scriva, per favore: il mondo deve sapere quale eccellenza vanta Udine». —
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