Filo rosso tra Mv scuola e gli Usa: in diretta con Santa Barbara
Nasce la collaborazione tra la nostra redazione e quella dell'università californiana. Intervista a Paksy Plackis-Cheng, professore associato dell'ateneo statunitense
Emanuele Quagliaro
La redazione del Mv Scuola quest’anno raggiunge anche i ragazzi d’oltreoceano, grazie ad una collaborazione con gli studenti dell’Università di Santa Barbara in California. Un filo-rosso Udine-Usa permetterà ai membri della redazione ragazzi del Messaggero Veneto di confrontarsi online con le loro controparti americane.
Questa iniziativa è stata resa possibile grazie a Paksy Plackis-Cheng, senior fellow (professore associato) presso l’ateneo della Costa Ovest.
Professoressa Cheng, come è nata l’idea della collaborazione fra i suoi studenti e il Mv Scuola?
«Ho avuto modo di conoscere la redazione ragazzi durante il Festival di NanoValbruna lo scorso Luglio. Vedendo quanto voi ragazzi vi impegnate nel vostro lavoro e quanto interesse avete nei confronti di altre culture, ho pensato che sarebbe stata un’opportunità costruttiva se aveste potuto confrontarvi con studenti che hanno una formazione completamente diversa dalla vostra. Non una collaborazione fra noi coordinatori adulti, ma fra voi ragazzi: un modo per comparare le vostre diverse esperienze, i vostri progetti, la vostra visione dell’attualità mondiale» .
Quale ritiene sia la maggiore differenza fra la metodologia scolastica americana e quella europea?
«In Europa, e in Italia in particolare, la scuola è focalizzata maggiormente sullo sviluppo del pensiero critico dell’alunno, sulla sua capacità di ragionare a prescindere dall’ambito lavorativo. Negli Stati Uniti d’America si punta invece soprattutto sulle conoscenze pratiche degli studenti: si cerca di fornire loro tutti gli strumenti che il mondo del lavoro richiede, ma anche le competenze globali e la flessibilità oggigiorno indispensabili. I miei allievi, per esempio, producono oggi anno un libro su un tema di attualità, frutto delle loro ricerche sul campo che diventa una parte essenziale del loro curriculum. Meno di un mese fa è stata pubblicato il volume più recente, “Digital Nomads” (Nomadi digitali)»
Di che cosa parla?
«Riguarda il cosiddetto nomadismo digitale, ovvero il fatto che sempre più persone in tutto il mondo lavorano esclusivamente a distanza, addirittura da nazioni che si trovano dall’altra parte del globo. Molti impiegati della Sylicon Valley (zona californiana nota per le grandi aziende tecnologiche ce vi hanno sede) non sono mai stati in America e hanno sempre svolto il loro lavoro in videoconferenza. Questo accadeva ben prima della pandemia, il Covid 19 ha solo velocizzato un processo già in corso, nel quale io sono sempre stata coinvolta in prima persona» .
A cosa fa riferimento?
«A volte mi capita di essere in giro per l’Europa per seguire vari progetti in cui sono coinvolta e in questo caso continuo a seguire i miei studenti tramite collegamenti a distanza. Anche quando mi trovo di persona negli Usa le lezioni si svolgono sempre per il 50% via web, onde permettere la partecipazione anche a chi proviene da zone del mondo distanti da Santa Barbara, per esempio la Corea del Sud o, perché no, anche l’Italia» .
Ritiene che un rapporto di lavoro esclusivamente a distanza infici la produttività?
«Secondo la mia personale esperienza ciò accade molto raramente e spesso in casi in cui si ricorre allo smart-working (lavoro agile) come sostituto temporaneo di attività svolte di persona. Il nomadismo digitale avviene in ambiti ben diversi: si tratta di professione che fanno ormai ricorso da così tanto tempo ai collegamenti via internet da essersi adattate a questa nuova modalità. Ciò fa sì che tutte le procedure siano state costruite sulle base delle esigenze e delle potenzialità che una collaborazione via internet comporta tanto da risultare completamente inadatte ad un rapporto di lavoro tradizionale. Tuttavia il nomadismo digitale ha anche un forte impatto sociale: riduce drasticamente uno dei fattori principali di cambiamento socio-economico degli ultimi 150 anni: l’emigrazione. Oggigiorno è possibile lavorare per una società di un paese senza essere mai entrato in contatto con la cultura di quella nazione, senza che si sia potuto verificare quello straordinario arricchimento culturale che l’immigrazione porta con sé»
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