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L’infettivologo positivo al virus: «Siamo come voi e ci ammaliamo, aiutateci a non mollare»

Massimo Crapis: «Troppe dispute tra virologi e personalismi hanno disorientato creando negazionismi, mi scuso a nome della categoria»

5 minuti di lettura
Sergio Venturini, Sara Fossati, Astrid Callegari e Massimo Crapis, in forza alla struttura malattie infettive dell’Azienda sanitaria Friuli occidentale 

PORDENONE. «A marzo ci chiamavate eroi. Non lo eravamo. Adesso ci fate sentire un mondo a parte. Non lo siamo. La cosa peggiore, in questo momento, è il noi e il voi. Noi con la nostra vita dentro l’ospedale, voi con la vostra fuori. In realtà noi siamo voi ed eccomi qua a dimostrarlo, ora che sono diventato paziente.

E voi siete noi, perché se e quando vi capita di entrare in ospedale avete bisogno di trovarci nel pieno delle nostre forze e delle motivazioni, non stanchi e frustrati. Diamoci una mano per uscirne insieme».



Massimo Crapis, responsabile a Pordenone della struttura malattie infettive dell’Azienda sanitaria Friuli Occidentale (AsFo), è da alcuni giorni costretto a casa: positivo. «E non ho ancora capito come abbia potuto infettarmi – racconta –. Esclusa la famiglia, in cui sono tutti negativi, qualcosa evidentemente è andato storto».

Al lavoro?

«Può essere. Ho visto tanti pazienti, fino a quando ho potuto lavorare in ospedale. Fino a qualche tempo fa il problema era più esterno, che interno. Molti miei colleghi avevano parenti con febbre e sintomi. La cosa è iniziata all’esterno ma ultimamente si è spostata, per tanti di noi, in ambito lavorativo. Difficile dire cosa sia cambiato rispetto alla scorsa primavera.

Non credo sia una questione legata alla mutazione del virus. Certo nella prima ondata abbiamo avuto meno ricoveri e una circolazione inferiore del Covid. Ora siamo arrivati a gestire 180 pazienti al giorno, che arrivano in ospedale a Pordenone, tutti degenti, magari dopo essere transitati al pronto soccorso a Spilimbergo o a San Vito.

Molti hanno bisogno di un supporto respiratorio importante, che è il motivo per cui vengono ricoverati. L’arieggiamento è inferiore, c’è più freddo e siamo da mesi in super lavoro. E più si lavora, più si è stanchi e più qualcosa, per esempio nella vestizione, può andare storto».



Siamo pieni di virologi, basta accendere la tv, ma pochi conoscono voi: gli infettivologi. Perchè?

«L’infettivologo è lo specialista delle malattie infettive, la parte clinica. Il virologo è il microbiologo che si occupa di virus e ci dà gli strumenti su cui poter lavorare. Senza di loro non avremmo le diagnosi corrette, ma poi siamo noi a curare i pazienti. Bassetti, per esempio, è infettivologo, Crisanti virologo, come Rigoli. Poi ci sono gli epidemiologi, che non hanno a che fare con la clinica. Sono laureati in medicina e chirurgia e vedono la statistica e la dinamica dell’epidemia. Mediaticamente vediamo più virologi, ritengo, per un equivoco di fondo».

Ci descriva una delle sue giornate tipo, in ospedale, prima dello stop forzato.

«All’inizio eravamo in quattro. Poi due collaboratrici sono state assegnate ai turni nei reparti Covid: Sara Fossati nel reparto di pneumologia Covid e subintensiva e Astrid Callegari in medicina Covid. Ufficiali di collegamento, diciamo così, siamo rimasti Sergio Venturini e io. Andiamo in pronto soccorso per aiutare i colleghi a capire se il paziente debba essere ricoverato o gestito a domicilio e abbiamo costruito e ideato un sistema che si chiama “aPNea score”, con PN in maiuscolo non per caso.

L’obiettivo è aiutare a standardizzare l’approccio ai pazienti Covid: sopra i 5 punti devono essere ricoverati, sotto li gestiamo a domicilio. Poi andiamo in terapia intensiva a valutare i pazienti più a rischio per cogestirli coi colleghi e giriamo negli altri reparti Covid non già coperti dalle collaboratrici. Infine, quando eravamo in 4, riservavamo una nicchia alle patologie infettivologiche no Covid, che ancora esistono.

Facevamo una sessione ambulatoriale settimanale per le visite esterne e ci mettevamo a disposizione dei colleghi dei reparti no Covid per le terapie antibiotiche dei pazienti complessi per tipologia di batterio o difficile localizzazione dell’infezione, nei casi per esempio di protesi articolari o endocardite».



E ora la coperta è sempre più corta. Senza contare che sembra che tutti paiono sentirsi virologi. Non ritiene che le dispute, all’interno della categoria, offuschino la chiarezza del messaggio e rischino di farvi perdere credibilità?

«Certamente. Ritengo che abbiamo fatto e stiamo facendo una bruttissima figura, in termini di comunità scientifica. Abbiamo lasciato che i singoli, tra noi, dicessero quello che volevano, a volte senza sostrato ed evidenza scientifica e altre, ancora peggio, mettendoci uno contro l’altro. Me ne rendo conto e mi scuso per la figura fatta dalla categoria, perché la gente non ha potuto comprendere la verità, di fronte a tutti questi messaggi difformi e discordanti.

Finalmente a ottobre la società italiana malattie infettive è uscita con un comunicato (peccato non l’abbia fatto a marzo) in cui dice che in una pandemia iniziata a febbraio nessuno deve e può definirsi un esperto. L’esperto, in termini scientifici, è uno che ha una lunga esperienza in materia e in questo caso, con un virus manifestatosi a febbraio, non è possibile.

A mio avviso si doveva distinguere tra l’esprimere le proprie idee e convinzioni, cosa legittima, e il proporle come verità scientifica assoluta. A livello scientifico sono state fatte brutte figure, ci sono state previsioni rivelatesi inesatte. Ciò ha favorito il negazionismo. Se la gente sente tre “espertoni” sostenere tre tesi, inevitabilmente crede a quella che le fa più comodo».

Così, per diffondere il messaggio corretto e univoco, lei ha fondato il “partito dei realtisti”, con video sempre più seguiti su Facebook. “Partito” che sostiene...

«... Che in questo momento è difficile fare previsioni e che nessuno, io tantomeno, può arrogarsi il diritto di definirsi esperto. L’unica cosa che si può fare è osservare la realtà senza edulcorarla, nè in positivo nè in negativo. Di qui l’esigenza dei video su Facebook con contenuti il più neutri possibile. Ho ritenuto importante trasmettere quello che i miei occhi vedevano e “fotografavano” all’interno dell’ospedale. Solo così la gente si può rendere conto di quali siano i problemi. Mi è parso un contributo onesto».

Due storie su tutte, a proposito di fotografare con gli occhi quanto accaduto in questi mesi in ospedale.

«Una riguarda due coniugi. Non abbiamo potuto salvare lui, ma siamo riusciti a far sopravvivere lei e a portarla a salutarlo. È stato un momento commovente per tutti e rimarrà indelebile nella mia memoria. L’altra è di un paziente rimasto per quasi due mesi in terapia intensiva, tracheotomizzato. A un certo punto lo ritenevamo spacciato, ma abbiamo tenuto duro e non solo l’abbiamo rimesso in piedi, ma ne abbiamo ascoltato i lamenti perché, a più di 70 anni, “non è proprio come prima, ora arrivo a correre 5 km invece di 10”».

Altro luogo comune: muoiono solo i vecchi. Proprio vero?

«Con l’avanzare dell’età cresce indubbiamente il rischio. Le percentuali di mortalità sono diverse. Non si sa se ci sia una componente genetica, sicuramente ce n’è una di comorborsità, che poi è la sindrome metabolica: obesità, ipertensione e diabete. Nella nostra esperienza tra i pazienti giovani deceduti più del 70 per cento aveva l’obesità o la triade della sindrome metabolica.

In questi pazienti la sindrome infiammatoria è molto più grave. Va detto, però, che non si deve tener conto della sola mortalità. Anche per chi ne esce, il recupero non è così veloce. Il virus lascia strascichi di stanchezza, astenia, fatica a respirare. Complicazioni che ricorrono, per esempio, anche nei casi di mononucleosi. A volte gli strascichi durano due o tre settimane, altre mesi».

Di che tipo di aiuto avete più più bisogno, oggi come oggi, in ospedale?

«Di un sostegno fattivo. Tradotto, del rispetto delle regole, per non ammalarsi e non appesantire il carico di lavoro in ospedale. E di un sostegno morale, per farci sentire che la battaglia è condivisa. Uno degli aspetti più belli di questa pandemia è la solidarietà che molti, fra gli operatori sanitari, stanno mettendo in atto. Non tutti, perché non esiste il tutti, in nessuna categoria.

Ma mi rende felice vedere diverse specialità, fino a qualche tempo fa mondi paralleli, infermieri e oss di altri settori, che vengono e vanno a collaborare tutti insieme per fare il bene dei pazienti. Una delle immagini più belle che mi porto dentro oggi».

Come ne usciamo? E che atteggiamento dobbiamo avere nei confronti dei vaccini?

«Farmaci miracolosi, al momento, ancora non ce ne sono. Il vaccino è probabilmente l’arma principale che avremo per contrastare il coronavirus. L’atteggiamento da tenere non cambia, nei confronti di qualsiasi farmaco: i benefici devono essere molto più numerosi dei rischi e degli effetti collaterali. Noi cominceremo ad avere a gennaio un vaccino, uno dei tanti allo studio, e nel corso del 2021 è lecito pensare che ne avremo altri 3 o 4, diversi come tipologie di farmaco.

Potremo scegliere e avremo la possibilità di capire quale sia il migliore, anche in base alle categorie di pazienti. In questo momento non possiamo avere la certezza che il vaccino cambierà la storia, ma abbiamo una grande speranza. I primi dati, dal punto di vista dell’efficacia, sono ottimi per il prodotto che ci arriverà a gennaio. Io da sempre mi sono vaccinato contro l’influenza e mi comporterò coerentemente. In questo momento non vedo effetti collaterali tali da rendere controindicata la mia vaccinazione per il Covid». —

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