«Nostro figlio torturato, conosciamo chi ha intrappolato Giulio. È un regime capace di uccidere, va richiamato l'ambasciatore»
Niccolò Caratelli
UDINE. «Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?». La domanda è retorica ma necessaria. La pone Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, nel giorno in cui la procura di Roma ha chiuso le indagini sull’omicidio del figlio, avvenuto quasi 5 anni fa, al Cairo. Quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo, «una tappa importante, nessuno avrebbe scommesso su questo risultato – dice la mamma di Giulio – ma non ci fermiamo, non vogliamo che siano condannati quattro persone a caso. Vogliamo la verità». Anche l’avvocato Alessandra Ballerini, che segue fin dall’inizio i coniugi Regeni, ci tiene a sottolineare che «sono dovuti passare 5 anni per arrivare a quello che è il punto di partenza, cioè al processo».
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Ma non ci si può accontentare di quattro imputati, perché «sappiamo che in tanti hanno concorso alla fine di Giulio, dal sequestro alle torture, fino ai depistaggi – spiega – noi vogliamo tutti gli anelli della catena, chiamare in causa il regime egiziano, che non può restare fuori dalla partita».
“Richiamate subito l’ambasciatore”
Di qui le richieste, reiterate, al governo italiano, «di fronte a chiare responsabilità di ufficiali fedeli al regime»: richiamare subito il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali. Su questo punto insiste, con amarezza, il padre di Giulio, Claudio Regeni: «Ci avevano detto che il ritorno dell’ambasciatore Cantini in Egitto sarebbe servito a ottenere più collaborazione per le indagini – attacca – invece la priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici». Pretendono un segnale tangibile, i genitori Regeni, «un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni».
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E ricordano che l’ultimo contatto con il governo risale all’ottobre del 2019, all’incontro con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che aveva parlato di «conseguenze», se da parte delle autorità egiziane non ci fosse stata collaborazione. «Vogliamo capire a quali conseguenze si riferiva il ministro, visto che gli egiziani continuano a prenderci in giro». Il riferimento è alla presunta banda di cinque rapinatori, che gli investigatori egiziani ancora accusano di aver derubato Giulio e che saranno processati al Cairo nonostante siano già stati uccisi. «Continuano a sbandierare una ricostruzione palesemente falsa che risale a marzo 2016 – denuncia Paola Deffendi – è una situazione grottesca e inaccettabile».
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Le responsabilità italiane
È d’accordo il presidente della Camera, Roberto Fico, presente alla conferenza stampa nella scomoda posizione di rappresentante delle istituzioni. «Quando ho incontrato il presidente Al Sisi gli ho detto che non accettiamo depistaggi e non ci beviamo la storia della banda dei cinque – spiega – Il processo è una tappa importante, spero che arriveranno nuovi testimoni». Poi aggiunge che la vicenda Regeni e il rispetto dei diritti umani in Egitto è «una questione che va affrontata come Unione europea, facendo fronte comune, per questo la recente visita di Al Sisi a Parigi è un segnale di debolezza». Di certo «lo Stato italiano deve muoversi per ottenere verità, dare risposte ai cittadini».
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Anche accertare le responsabilità italiane sulla fine di Giulio Regeni: «Chiedo alla commissione parlamentare d’inchiesta di fare chiarezza su tutte le zone grigie che ancora ci sono – dice la mamma di Giulio – Cos’è successo nei palazzi italiani da quel 25 gennaio al 3 febbraio 2016. Come mai Giulio, un cittadino italiano, non è stato salvato in un Paese che era amico e che continua ad essere amico?».
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