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Caso Regeni, arriva lo schiaffo dall’Egitto: "Processo immotivato, caso usato per nuocere i rapporti con l'Italia"

Il Cairo non perseguirà gli agenti segreti: «Non c’entrano, nessun processo. Qualcuno voleva rovinare i rapporti con l’Italia»

2 minuti di lettura

Roma

È tutta un’altra storia quella che l’Egitto racconta sui nove giorni del 2016 in cui, un po’ alla volta, è morto Giulio Regeni. La Procura del Cairo aveva già risposto picche alla chiusura delle indagini annunciata dai colleghi di Roma tre settimane fa con la prospettiva del rinvio a giudizio per quattro 007 egiziani, aveva risposto che quel processo non s’aveva da fare perché non stava in piedi, perché la mano assassina era ignota, perché a forza di menzionare estradizioni il Cairo avrebbe finito per rivendicare quella di due funzionari italiani accusati di contrabbando da Luxor e condannati in contumacia a 15 anni di carcere (e lo ha fatto). Adesso, in un nuovo comunicato, rilancia: non solo, scrivono i magistrati egiziani, «l’autore del reato è ignoto» e «tutte le prove svelate dalla Procura di Roma sono dovute a conclusioni errate illogiche e non sono in linea con i regolamenti giuridici penali concordate a livello internazionale», non solo ribadiscono di aver «individuato i conoscenti egiziani e stranieri della vittima, e ciò che lui ha svolto nel quadro della sua ricerca in Egitto sui sindacati indipendenti» ma sottolineano che «le indagini avevano confermato che Regeni parlava con i venditori ambulanti del regime in Egitto e gli riferiva che potevano cambiare la situazione come è già avvenuto in altri paesi» e che se durante le indagini la collaborazione tra Procure è mancata la colpa è tutta della reticenza di Roma. C’è un mondo dietro le pagine che mettono nero su bianco la versione egiziana, quella secondo cui Giulio Regeni era sospettato di sobillare una nuova rivoluzione anche in virtù dei «vari viaggi che ha effettuato in Italia, Turchia, Israele prima di rientrare in Egitto».

A chi parla con questo nuovo documento il Cairo? L’opinione pubblica egiziana è già polarizzata, con i dissidenti che considerano Giulio Regeni uno di loro a cui è stato riservato il loro medesimo trattamento e i governativi che condividono la paronoia nazionale per qualsiasi minaccia alla sicurezza dello Stato. L’impressione, in Egitto, è che il messaggio sia tutto per l’Italia, ferita, offesa dalla facilità francese nel consegnare la legione d’onore ad al Sisi, forte di una magistratura indipendente ma debole sul tema dei migranti, i giacimenti nel Mediterraneo e le armi (il 23 mattina è stata consegnata in sordina la prima delle due fregate Fremm di Fincantieri acquistate dall’Egitto, la “Al-Galala”. Al Cairo, dove la narrativa dei media ufficiali lascia intendere che ci sia la mano di al Sisi dietro la liberazione dei pescatori siciliani prigionieri a Bengasi, l’ultima sortita della Procura pare tanto una pietra tombale.

Se non sono stati consegnati a Roma i tabulati telefonici è perché questo, si legge, «avrebbe violato la privacy e i diritti umani». Ciononostante il Cairo sostiene di aver verificato le accuse italiane salvo concludere che, per esempio, additano un ufficiale di polizia egiziano «solo perché ha fatto accertamenti su di lui dopo una denuncia sporta contro Regeni in base alla quale i suoi comportamenti non erano adatti alla ricerca che svolgeva». La chiosa è netta: Regeni «a causa dei suoi atteggiamenti è finito al centro dell’attenzione delle autorità di sicurezza egiziana» ed è stato poi ritenuto inoffensivo. Chi l’ha ucciso, allora? Qualcuno che «sfruttando la denuncia sporta contro di lui» ne ha approfittato per «minare i rapporti italo-egiziani.

Nel frattempo, dicono da una Cairo sempre più cupa, il sindacalista all’origine della denuncia contro Giulio Regeni, Mohammed Abdallah, non si vede in giro da mesi. —

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