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L’Italia è compiuta: nessun piede straniero da Trento a Trieste

Un viaggio nella nostra storia nel centenario della grande guerra: luoghi, personaggi ed eventi in uno dei principali teatri dei combattimenti. La ventiquattresima e ultima puntata

4 minuti di lettura

La guerra è finita. Scende dai monti l’acqua grigia che si stempera nell’azzurro del mare. A perdita d’occhio è tutta Italia. I gabbiani indisturbati disegnano arabeschi nel cielo silenzioso, i tuoni non echeggiano più. La guerra è proprio finita.

Aspettavamo con grande ansia la prova decisiva. Diaz doveva tenere separate le forze di Conrad dispiegate nel Trentino da quelle di Boroevic impegnate lungo il Piave. Se le due armate imperiali fossero riuscite a congiungersi, gli eventi avrebbero probabilmente avuto un corso diverso, con gli italiani in grande difficoltà a mantenere la linea del fiume. Diaz è riuscito nella difficile impresa e questo successo gli ha consentito di avviare la riscossa. Nella notte del 28 ottobre 1917 anche l’ultimo italiano ha varcato il Piave.

Fa uno strano effetto assistere al rovesciamento delle parti: esattamente un anno fa, gli austriaci dilagavano nella pianura veneto-friulana pressando gli italiani in fuga dopo le inutili battaglie sull’Isonzo e la rotta di Caporetto; oggi siamo noi, noi italiani che vediamo i nemici alzare i tacchi e guardarsi alle spalle. Potrei esternare anche la mia soddisfazione, ma ne sono impedito da un senso di amarezza per ciò che ho visto in questi anni.

Stiamo procedendo verso la vittoria, guardo in giro e vedo soldati con il fucile in spalla, altri uniti per spingere un cannone o per portare una mitraglia, camion che sobbalzano su strade malandate, l’automezzo della Croce Rossa scorrazzare avanti e indietro, aerei che ci passano sopra per scendere in picchiata sparando su uomini in fuga: ultime scene di guerra per conquistare la pace.

Gli austriaci che riescono a varcare il vecchio confine del loro Paese per tornare a casa incontrano difficoltà da parte degli stessi connazionali; l’imperatore Carlo è fuggito da Vienna, i soldati sono accolti con malcelato disappunto perché hanno perduto la guerra, ricevono 80 corone e una medaglia di bronzo con incise poche parole: “Il sovrano riconoscente e la patria”.

Le formalità forse si salvano, ma un avverso destino attanaglia molti soldati: in pochi giorni ne abbiamo fatti prigionieri 400 mila, dei quali 10 mila ufficiali. C’è il problema della loro destinazione e in attesa vengono smistati nelle isole.

Gli italiani stanno rioccupando le terre perdute, molti si ritrovano nei paesi di origine e approfittano per cercare i parenti, gli amici e conoscere le loro vicissitudini: assisto a tanti abbracci, ma anche a molte lacrime.

Il governo austriaco ha avviato i sondaggi per concordare l’armistizio e si è dichiarato disposto ad accettare qualsiasi condizione, purché non leda l’onore dell’esercito e non equivalga a una capitolazione. Le prime trattative si sono svolte a Villa Giusti, un edificio veneto dell’Ottocento senza pregio e senza storia, un po’ isolato nella pianura tra Padova e Abano.

Il 1º novembre, giornata grigia con nebbia, vi si sono incontrate le delegazioni dei due governi, guidate da Pietro Badoglio e Viktor Weber von Webenau. Le condizioni poste dall’Italia sono state scritte personalmente dal presidente d. el Consiglio Vittorio Emanuele Orlando: sgombero dei territori occupati e di quelli assegnati all’Italia col patto di Londra del 1915; consegna di parte dell’artiglieria; liberazione dei prigionieri alleati; facoltà per le potenze dell’Intesa di servirsi a scopo militare di tutti i mezzi di comunicazione dell’impero austro-ungarico; eventuale occupazione di parte del territorio per ragioni militari o di ordine pubblico.

Le richieste esposte da Badoglio sono state inviate all’imperatore e per due giorni si è attesa la risposta, pervenuta all’una della notte tra domenica e lunedi 4 novembre. Non c’è nulla da discutere, la decisione dell’imperatore non dà adito ad alcun rilievo: «Tutte le condizioni dell’armistizio, se non si può ottenere una loro immediata mitigazione, vengono accettate senza pregiudizio per la pace».

Sono le 6 del mattino quando i capi delle due delegazioni firmano l’accordo e annunciano la fine delle ostilità dalle 15 dello stesso giorno. Ma scontri e scaramucce stanno accadendo dove i territori sono ancora contesi perché le informazioni ufficiali non sono pervenute in tempo ai comandi.

Mancavano dieci minuti alle 15 del 4 novembre quando uno squadrone di cavalleria arrivato al Tagliamento è avanzato al galoppo per cacciare una postazione austriaca: il fuoco delle mitragliatrici ha fatto una carneficina; sono rimasti sul terreno anche i sottotenenti Augusto Piersanti e Achille Balsamo, ultimi caduti della Grande Guerra, il primo è stato l’alpino udinese Riccardo Di Giusto.

Il Bollettino numero 1268 diffonde il testo dell’armistizio che resterà nella storia: «La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re duce supremo, l’Esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta e asprissima per 41 mesi, è vinta. L’Esercito austro-ungarico è annientato; esso ha subìto perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza».

L’orgogliosa sicurezza ora è tutta degli italiani. La linea del nuovo confine è praticamente quella fissata a suo tempo dal patto di Londra: dal pizzo Umbrail, a nord dello Stelvio, lungo le Alpi Retiche, fino alle sorgenti dell’Adige e dell’Isarco, passando per il Brennero e e per la sella di Dobbiaco; lungo lo spartiacque delle Alpi Carniche fino alla sella di Tarvisio; lungo lo spartiacque delle Alpi Giulie fino al passo di Podbrdo e Idria; a sud-est verso monte Nevoso, lasciando escluso il bacino della Sava, fino al golfo del Quarnaro; infine, seguendo i limiti amministrativi della provincia di Dalmazia.

Il 24 novembre 1918 il Parlamento, ritrovata almeno formalmente la concordia, celebra l’evento ascoltando le parole di Orlando: «L’Italia è compiuta. Il grido di dolore dell’Italia intera è soddisfatto. Nessun piede straniero calpesta più né più calpesterà il Trentino nostro, né Trieste figlia di Roma, né altra nostra terra». Adesso anche Diaz ha imparato addo’ sta Vittorio Veneto.

Anch’io ho imparato qualcosa vivendo questi anni di guerra. Me ne rendo conto percorrendo all’incontrario quelle strade che l’anno scorso mi avevano portato lontano dal Friuli con il timore di non poterci più ritornare. E invece sono arrivato qui, sulle mie gambe, senza alcun segno di ferite, però le ferite le porto dentro, nel cuore, dove nessuno le può vedere. I paesi che ho appena attraversato sono irriconoscibili, gran parte delle case sono distrutte, la gente rimasta – assai poca – trova riparo tra le macerie, sotto tetti provvisori, sprovvista di tutto; non riesco a immaginare come si potrà riprendere la vita.

Ecco Udine, la capitale della guerra. Povera Udine e povero Friuli. Povero il mio Dorta. Entro nello storico caffè dove anni addietro sono nate tante amicizie tra civili e militari che parlavano di tutto tranne che di una guerra imminente. Non c’era nulla da temere secondo loro e secondo noi. Capricciosa garibaldina, trullallà... Oggi il Dorta è quasi deserto, anche i camerieri sono cambiati, questi sono anziani, la guerra non l’hanno fatta, per ciò non mi riconoscono, cosicché mi siedo un po’ appartato con la speranza di vedere entrare un volto noto. Passano i minuti, le ore e nessuno mi distoglie dagli insistenti pensieri. Abbiamo vinto la guerra. Cosa abbiamo vinto? 600 mila morti? Città, botteghe, industrie, case, strade distrutte? Se il pudore non me lo impedisse, direi che i problemi adesso sono più gravi di prima.

E il futuro? Cosa ci riserverà il futuro? Un’Italia più sgangherata di così è difficile da immaginare e risanarla sembra impossibile, a meno che non spunti all’orizzonte qualche taumaturgo che conosce la strada della rinascita, la propone e poi magari l’impone. Già, la guerra sarebbe una bella idea, qualcuno sicuramente l’avrà.

(24. Fine)

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