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«Accanto al Che con la fame della guerrilla»

“Benigno”, uno dei tre superstiti della tragica spedizione boliviana, è stato ieri ospite del nostro giornale e della Friuli

2 minuti di lettura

UDINE. Ogni ideale ha bisogno di una bandiera, materiale e non, da poter essere sventolata.

I guevaristi di tutto il mondo (più o meno convinti, più o meno effettivi conoscitori della storia), continuano ancora oggi a innalzare la famosa immagine del Che, regalata dal fotografo cubano Alberto Korda a un lungimirante Giangiacomo Feltrinelli, che le fece fare il giro del mondo sulla copertina dell’altrettanto celebre libro Diario in Bolivia, del ’68.

Un’immagine che va oltre la fisicità, la corporalità dell’uomo e abbraccia nell’immaginario comune un insieme di valori, un credo. Un credo che spinse Ernesto Guevara ad attraversare decine di confini, nella convinzione che la rivoluzione inizialmente riuscita a Cuba potesse funzionare in tutti i paesi del Terzo Mondo. Un credo che, quindi, lo portò alla morte.

"Benigno" parla di Che Guevara

Forse fu tradito, forse fu solo ingenuo, i dubbi sono tanti. Ma non per chi gli rimase a fianco fino a quell’8 ottobre del ’67, quando da combattente divenne martire e da uomo divenne mito. In Bolivia sopravvissero in pochi e uno di questi pochi si chiama Ariel Alarcón Ramiréz, meglio conosciuto con il suo nome di rivoluzionario, Benigno.

«Quel che mi ha insegnato Che Guevara, anche i suoi errori, errori di essere umano, sono valori che porterò con me sempre, finché avrò vita». Benigno è oggi un uomo di 75 anni, con la pelle del viso segnata non dal tempo, ma da una vita intensa che ormai gli è alle spalle. Parla del Che - che gli è stato maestro di vita ma anche educatore in senso stretto - rimanendo fieramente ritto su un corpo alto, ma che è sempre stato esile e consumato dalla fatica. E mentre parla, gli occhi gli si inumidiscono di lacrime.

Lui è in questi giorni a Udine, chiamato da alcuni amici friulani conosciuti da quando, nel ’96, decise di scappare a Parigi lasciando la sua amata Cuba e ieri, prima di incontrare il pubblico alla libreria Friuli, si è fermato nella redazione del nostro giornale per parlarci della sua incredibile vita.

«Una volta rientrato a Cuba, dopo la fallimentare spedizione boliviana, cominciai a capire, ad avere la lucidità per riflettere sul quel che stava succedendo. Io e gli altri superstiti fummo accolti in modo ufficiale, ma in realtà solo poi capimmo che non ci volevano più, che la rivoluzione per la quale avevamo combattuto habia sido una mentira». Una bugia.

La voce s’incrina, ma lo sguardo non si abbassa. «Ho passato la prima parte della mia vita nell’ignoranza, da campesino, finché i soldati di Batista uccisero tutta la mia famiglia. A 17 anni decisi così di unirmi a Cienfuegos e poi al Che, e crebbi con la fame della guerrilla, che per me significava solo libertà e giustizia per il popolo…non avevo, infatti, ancora la facoltà di capire il senso della rivoluzione, io ero, come tutti, un fanatico delle parole di Castro».

Lo stesso Castro che poi, secondo le sue parole, tradì il Che Guevara e i compañeros e che poi trasformò Cuba nella dittatura da cui lo stesso Benigno è fuggito. Una battaglia persa, quindi. Che ha lasciato alle sue spalle troppi morti e un grande ideale infranto.

«In un primo momento credevo che la via della guerriglia fosse legittima e l’unica per ottenere la libertà. Ora – ammette con un velo di tristezza consapevole nella voce - so che l’unico modo è il dialogo. Dialogo tra dirigenti degli stati e di questi con i loro cittadini. Sono triste? Sì, certo. Ma sono anche cosciente di non aver mai tradito i valori in cui credevo, i valori della rivoluzione guevarista che sognava la libertà dei popoli, e che con questi andrò nella tomba».

Rivoluzionario convinto, castrista deluso ma, soprattutto, Benigno è arrivato a Udine come testimone di una delle più grandi avventure idealiste mai vissute dall’uomo.

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