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Un’altra Europa di Resistenza: De Marco e i volti dei partigiani

Il fotografo friulano amplia la raccolta dei protagonisti della lotta per la libertà. A palazzo Gopcevich i ritratti scelti dall’artista tra gli oltre mille collezionati

3 minuti di lettura
“Partigiani di un’altra Europa” è il titolo della mostra fotografica di Danilo De Marco che s’inaugurerà domenica 25 ottobre, alle 11.15, a palazzo Gopcevich in via Rossini 4 a Trieste. Ne scrive Gian Paolo Gri nel saggio “La scrittura dei volti”.
 
Mi sono trovato per la prima volta, inquietato di fronte a una selezione di questi volti, nel 2005, in una barchessa di Villa Manin a Passariano. Era il 60° anniversario della Liberazione. Allora erano volti di vecchi partigiani soprattutto del Friuli Vg; poi la ricerca di Danilo De Marco si è allargata al resto d’Europa.
 
Consapevole che si trattava di antropologia urgente perché la fila inesorabilmente si diradava, Danilo ha inseguito storie e vite lunghe di partigiani finché il suo archivio di volti ha superato il migliaio di persone.
 
Ora mi ritrovo di fronte a una cinquantina di quelle facce (posso immaginare la sofferenza di Danilo, obbligato a una selezione cosí brutale!), dieci anni dopo, per un 70° che mi lascia l'amaro in bocca: la memoria del 1945 relegata in un angolo, mentre in questi mesi ho assistito a una valanga di pubblicazioni e iniziative (e finanziamenti) a ricordo del 1915, come se la nostra libertà e democrazia fossero figlie di quella guerra e non della lotta partigiana.

Queste immagini sono quanto di piú lontano si possa vedere dalle pose baldanzose, talvolta epiche, che si osservano nelle fotografie dei partigiani in festa, a cose fatte, a guerra appena conclusa. Sono imparentate semmai, se non fosse perché a fianco manca l’immagine di profilo, con le foto segnaletiche di ricercati, fermati, arrestati.

Immagini severe, nella loro frontalità e nel bianco-nero durissimo e bellissimo scelto per la stampa; ma si vede bene che non sono foto rubate, che questi anziani hanno accettato di stare al gioco. Hanno messo il meglio di sé nella posa (li posso immaginare rigidi sulla sedia, le mani sulle ginocchia, obbedienti come bambini buoni alle richieste del fotografo), mostrano sul volto senza pudori i segni del tempo appena corretti talvolta dal filo di trucco e dal colpo di pettine, ma qualcuno non ha saputo liberarsi da un pizzico di autoironia che l’età regala allo sguardo degli anziani. Gioco serio quello imbastito dal fotografo.

Le immagini che vediamo in mostra - se questa è una mostra. A me pare piuttosto una provocazione - sono soltanto il momento conclusivo di una relazione cercata e costruita da De Marco. Il passaparola ha portato a individuare le persone e a ritrovarle in giro per l’Italia, in Francia, Spagna, Grecia, Cechia, Slovenia, Germania, e altro.

Sono seguite parole di spiegazione, sorpresa e talvolta ritegno da vincere, incontri ripetuti, scambi d’opinione, narrazioni e poi ancora narrazioni su quanto accaduto allora e sul lungo e successivo poi, trasformatosi spesso in resistenza disarmata, protratta e impotente, in disillusione dura da ingoiare e digerire.

Parole rammaricate sull’Europa che avrebbe potuto essere e invece non è stata; sul pantano del disinteresse e della smemoratezza, sull’impotenza e lo sfascio istituzionale, la corruzione, la mafia, le burocrazie, i centralismi risorgenti, la finanza spregiudicata…

E ora nuovamente confini chiusi, muri, filo spinato di nuova generazione, lucente: questo, sí, degna e vergognosa rievocazione del centenario della Grande guerra, col suo filo spinato arrugginito, a rendere patetici gli itinerari della memoria in Carso o sul Grappa!

L’incontro cercato, le tante parole scambiate prima dello scatto, il dialogo franco e la relazione ben impiantata fanno da sfondo non rappresentato, ma imprescindibile, a queste immagini. A differenza delle istantanee o delle fototessere, esse sono il risultato di un incontro e di un profondo coinvolgimento di fotografo e fotografato.

Tutto è concentrato sul viso. Si lavora sulla serialità, sul primo piano, sulla messa a fuoco selettiva centrata sugli occhi, con gli altri piani del volto a degradare in nitidezza: chi guarda è catturato, obbligato a fare i conti con questa gente e con ciò che rappresenta. Iperrealismo, non ritorno nostalgico al neorealismo.

L’ottica utilizzata, l’uso della luce e le modalità di stampa accentuano la scrittura impressa dagli anni sui volti. Chi ha contribuito a inciderla, e chi è capace di leggerla? Fra le non molte parole che l’italiano ha regalato alle altre lingue nel corso del Novecento sono anche le parole oppositive che hanno segnato le vite di queste persone: sono partigiano e fascismo.

Nel suo significato antico, “partigiano2 significa essere parte ed essere di parte; esprime l’impossibilità dell’equidistanza. Ma se è facile da dire, è questione delicata da rappresentare.

Primo Levi in una sua nota ne “La ricerca delle radici”, a commento della lunga indagine dedicata da Hermann Lagbein ai carcerieri e ai complici dei carcerieri di Auschwitz, a «quelli dell’altra parte», scrive: «Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci assomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno».

I volti di quanti fra loro hanno raggiunto i novant’anni non sono diversi da questi, raggiunti e colti da Danilo De Marco. Come rappresentare la differenza, come richiamare quel gesto iniziale di rifiuto dell'ossequio e del consenso, magari solo rifiuto istintivo all'inizio, poco ragionato, magari soltanto insofferenza giovanile trasformata soltanto dopo in consapevole scelta di vita?

Ecco il segreto degli occhi. Il resto del volto è vecchiaia; gli occhi no, dicono consapevolezza di aver scelto giusto, esprimono bisogno di verità e libertà. E fra i tanti occhi franchi, mi piace lo scatto che ha colto Silvy con gli occhi serrati, quasi a impedire che verità e libertà fuggano via da dentro di lei.

Non è una carrellata di vecchi reduci. Capisco perché la Resistenza (l’evento storico delimitato, cioè, col suo inizio e la sua fine, il suo prima e il suo dopo) qui sia soltanto un pretesto.

La mostra, o quel che è, vuole richiamare piuttosto ciò che Barbara Spinelli definisce “il principio di resistenza” in sé, quello che fa germinare in ogni tempo e in ogni situazione delle esistenze resistenti, che si nutrono d’insofferenza per l’esistente, di bisogno di cambiamento, che hanno compreso i rischi terribili dell’ossequio e del consenso.

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