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Il mostro di Frankenstein ha 200 anni

Lo ideò Mary Shelley: è il monito all’umanità sui pericoli di una scienza senza limiti

2 minuti di lettura

Aprile 1815, Indonesia, vulcano Tambora: si scatena una delle più spaventose eruzioni degli ultimi millenni. Il fenomeno si somma ad altri che lo hanno preceduto in diverse parti del mondo. Le enormi quantità di ceneri liberate nell’aria formano uno “schermo” che i raggi solari faticano a penetrare, causando un ciclo tra i più freddi della “piccola era glaciale” (fra il XIV e il XIX secolo): così, fra lunghe piogge scroscianti, alluvioni e tempeste di neve, oltre a epidemie e carestie, il 1816 diventerà l’“anno senza estate”.

Nel maggio di quel periodo angoscioso, alcuni letterati inglesi cercano un po’ di ristoro sul lago di Ginevra: sono Lord Byron, John William Polidori, Percy Bysshe Shelley, Mary Wollstonecraft Godwin (che di lì a poco sposerà Shelley) e la sua sorellastra Claire Clairmont. In una delle tante sere cupe e burrascose, leggendo racconti gotici e discorrendo di soprannaturale e di potenzialità della scienza (in particolare la possibilità di rianimare la materia morta), emerge l’idea di scrivere, in una sorta di competizione fra amici, storie spaventose. Saranno il Polidori (autore de “Il vampiro”, pubblicato nel 1819, precursore di “Dracula”) e la giovanissima Mary (neppure ventenne, ideatrice del dottor Victor Frankenstein e del suo “mostro” senza nome che tutti, in qualche modo, conosciamo) a concepire qualcosa di immortale. Almeno per questo mondo.

La prima edizione del romanzo epistolare di Mary Shelley, con il titolo “Frankenstein”, ovvero il moderno Prometeo, risale all’inizio del 1818, duecento anni fa. Alcune modifiche a questo agghiacciante (in ogni senso, giacché si svolge anche fra tetri ghiacciai) e formidabile prototipo di favola fantascientifica appariranno nell’edizione del 1831. L’idea si era fatta largo nella mente della talentuosa autrice dopo un incubo notturno in cui la sagoma orrenda di un cadavere aveva iniziato, tramite l’azione di un macchinario, a muoversi in modo «impacciato, quasi vitale»: «Una cosa terrificante – disse la Shelley –, perché terrificante sarebbe stato il risultato di qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo».

«Imparate da me – dirà Frankenstein – quanto pericolosa sia la scienza» e quanto possano essere fatali le «vertigini per le sconfinate prospettive» che essa dischiude. Così si chiariscono sia l’immagine di Prometeo sia altre fonti d’ispirazione: dal “Paradiso perduto” di John Milton al “Faust” dell’omonima tragedia di Christopher Marlowe, ma anche l’“Iliade”, la poesia tragica greca, lo Shakespeare della “Tempesta” e del “Sogno di una notte di mezza estate”, e così via.

«Come osi giocare a questo modo con la vita?», domanda il mostro a Frankenstein, infine costretto a fare i conti con i doveri verso la sua creatura, che lo avvisa: «Tu sei il mio creatore, ma io sono il tuo padrone». È, tuttavia, una creatura-padrone reietta, destinata all’infelicità, giacché «tutti gli uomini odiano gli sciagurati» e, a maggior ragione, rifuggono dal «più miserabile degli esseri viventi», «grottesca imitazione» di un essere umano. Nel dottor Frankenstein, l’orrore e il timore vincono la compassione: infatti il mostro formato da parti di diversi cadaveri, nato buono e gentile (è palese l’influsso di Rousseau), è diventato un «demone» che esplode «come un vulcano scosso da improvvisa eruzione» (si noti la similitudine) a causa della sua miseria: «L’infelicità ha fatto di me un mostro», rivela la creatura, che minaccia: «Privo di affetti non avrò altra scelta che l’odio e il male… Se non posso ispirare affetto, seminerò il terrore». E così sarà, in una spirale di morte.

«Per scoprire le origini della vita, bisognava capire la morte», ricordò Frankenstein prima di concludere tragicamente una disperata, inutile caccia al frutto dei suoi esperimenti. La morte alla fine la capì, ma non come avrebbe voluto. E forse il mostro, in qualche nuova forma, si aggira ancora…

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