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Baracetti festeggia 80 anni di battaglie in difesa del Friuli

Nel Pci e oltre, un politico sempre sulle barricate. «Di tutti i valori vissuti oggi mi resta l’identità»

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Ottant’anni densi, quelli festeggiati pochi giorni fa da Arnaldo Baracetti. Una tornata di vita in cui stanno l’acme e il crollo del fascismo, la guerra e la Resistenza, la nuova politica democratica, la nascita della Regione, il terremoto e tanto altro. Eletto a Trieste e successivamente a Roma, dove è stato vicepresidente della commissione Difesa, Baracetti guida oggi il Comitato per l’autonomia e il rilancio del Friuli. Il 20 gennaio l’Istituto Pre’ Checo Placereani presenterà un quaderno sulla sua attività scritto da Geremia Gomboso e Gianfranco Ellero, argomento al centro anche di questa intervista al Messaggero Veneto.

Novecento, secolo breve e bistrattato. Lei che giudizio ne dà?

«Per la parte che ho vissuto rappresenta il momento del riscatto democratico italiano, con la caduta del fascismo, il ripudio della guerra, la crescita un grande movimento popolare. Poi c’è stato un affievolimento della sensibilità e della partecipazione, per colpa di una politica inadempiente. L’impegno per il cambiamento non è stato onorato, e la gente si è rassegnata a brontolare in democrazia piuttosto che avventurarsi nel ribellismo».

Due termini la definiscono: politico e friulano. Qual è il sostantivo?

«Politico, senza dubbio. Senza politica si può interpretare scorrettamente la friulanità. Una cosa è battersi per la difesa dell’identità, della cultura, della lingua, dello sviluppo economico, un’altra è chiudersi in una visione limitata. La Piccola Patria non è un’isola, è parte di questa nazione, di questo Stato democratico, dell’Europa. Dobbiamo rivendicare la pienezza dei nostri diritti senza contrapposizioni sul piano regionale o nazionale, perché apparteniamo a un tutto».

Negli ultimi decenni una mutazione antropologica ha fatto sbiadire l’antica cultura rurale cosí cara a Pasolini. Cosa rimane dei suoi valori e dei suoi riferimenti?

«Si tende a rispondere che ne rimane ben poco, e che è difficile anche preservare le rare sopravvivenze. Ma credo che in fondo la gente senta in maniera forte la questione delle radici. Chi la considerasse un cascame facilmente liquidabile commetterebbe un gigantesco errore di valutazione; però vanno evitate, ripeto, distorsioni e strumentalizzazioni. Il senso profondo della friulanità – che deve valersi della politica, non viceversa – oggi viene talvolta usato per fini che ci entrano poco o nulla».

A proposito di mutamenti, anche la sinistra non scherza. Il Pci in cui ha militato oggi è diventato Pd...

«Il Pd, riferimento essenziale per lo schieramento di centro-sinistra, non si richiama alle vecchie formule. Siamo in presenza di qualcosa di nuovo e continuamente evolventesi, di diversità unite dai valori incontrattabili della Costituzione, e convergenti verso uno sviluppo democratico e progressista. Mi piacerebbe che il partito fosse autonomo; non per spaccare l’unità, ma per poter giungere a elaborazioni specifiche, nel quadro di una linea generale condivisa. Perché si parla tanto di federalismo, ma poi vince sempre la visione centralistica dello Stato. E però non si deve deflettere, mai».

Guardando al suo operato, di che cosa si sente piú orgoglioso?

«Delle grandi leggi nazionali: per la ricostruzione, per l’istituzione dell’università, per la valorizzazione della cultura e della lingua friulana, per lo sviluppo della cooperazione internazionale. All’epoca tutti i deputati friulani avevano fatto blocco, perché la coesione, l’intraprendenza, la capacità di combattimento parlamentare, permettono di superare le diversità ideologiche. E penso anche al Corridoio 2 e al raddoppio della Pontebbana. Un punto su cui ci siamo positivamente impegnati, e sul quale al momento noto una certa latitanza dell’Europa, e anche dei nostri rappresentanti, Serracchiani inclusa. Parlano molto di ciò che vogliono fare, ma poi non succede niente».

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