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Terremoto, così un gruppo di giornalisti raccontò il miracolo friulano

Ogni giorno, a partire da quel 6 maggio del 1976, gli articoli stimolavano la volontà costruttiva della gente. Il Messaggero Veneto divenne un “social network” che unì la comunità

di Paolo Medeossi
5 minuti di lettura

UDINE. Ci sono numeri che spiegano la storia del terremoto e dei dieci anni successivi in Friuli: nel 1976, edifici danneggiati 75 mila, distrutti 18 mila; nel 1986, edifici riparati 74.096, ricostruiti 16.276. Cifre inoppugnabili, davanti alle quali ci si può dilettare in parole e commenti, ma tali restano con la loro lapidaria verità.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Gemona e Venzone in un video a 360 gradi]]

Cifre mai verificatesi o ripetute in vicende analoghe nel nostro Paese e uscite da un insieme di situazioni finora mai illustrate in un racconto definitivo e organico, completo di tutto, anche di un’analisi su come andarono effettivamente le cose, attimo dopo attimo. I costi pagati dalla gente furono altissimi, in ogni senso, ma i risultati arrivarono.

Questa storia finita bene comprende pure quella di chi aveva il compito di fare la cronaca quotidiana su come si evolveva il destino di un popolo trovatosi ad affrontare la fase più tragica, un popolo appartato in un’area di confine dimenticata dai connazionali, guerre o calamità naturali a parte.

In un secolo i fari dell’attenzione si sono accesi verso di noi in poche apocalittiche circostanze, come accadde per esempio con la ritirata di Caporetto. Anche allora, a una immensa sconfitta militare, seguì un esodo di 130 mila persone scappate oltre il Piave, rimanendo profughe per mesi in varie zone.

Gente insomma abituata a sentirsi italiana a suo modo essendo cresciuta in luoghi e borghi vicini a un confine difficile, quella cortina di ferro che per mezzo secolo condizionò gli equilibri mondiali. Paesi segnati dalla presenza di caserme e dalle “servitù militari” che bloccavano l’iniziativa imprenditoriale o turistica.

Un mondo penalizzato come poi si notava nelle statistiche sul benessere che, durante gli anni Sessanta, collocava la provincia di Udine (allora comprendeva anche Pordenone) attorno al sessantesimo in Italia, dunque in coda al Nord e soprattutto al dinamico Nord-Est trainato dall’esuberanza veneta.

Il Friuli era così, uno scricciolo ai margini, ripiegato su se stesso, quando avvenne il terremoto del 1976, che si verificò in un periodo durissimo nella Penisola dove incombeva l’incubo del terrorismo: erano i cosiddetti anni di piombo.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) Arriva Mattarella, omaggio al modello Friuli]]

Un’intera società, all’apparenza un compatto monolito, fatto di reverenze e convenienze, come scrisse il grande Giorgio Bocca, era andata sorprendentemente in corto circuito sentendo quasi un bisogno suicida di elettrochoc, di salasso, di sbornia.

E bastò un piccolo esercito di estremisti, folli e decisi, a trasformare per un decennio l’Italia in un atroce campo di battaglia che ogni mattina diffondeva un bollettino di guerra zeppo di omicidi, rapimenti, ferimenti, proclami.

Va ricordato (a chi non c’era o ai distratti) un fatto per delineare il clima dell’epoca: nel maggio del 1976 presidente del consiglio era il democristiano Aldo Moro che venne subito in visita alle zone colpite e ai feriti. Nemmeno due anni dopo Moro fu rapito (e la sua scorta sterminata) dalle brigate rosse e assassinato al termine di mesi tremendi, fra trattative snervanti e una tensione che tenne in ostaggio un intero Paese.

Non pare irrilevante rammentare tutto questo essendo noto che la perdita di memoria collettiva è uno dei talloni d’Achille più diffusi in un’opinione pubblica che diventa preda facile di chi controlla e guida il gioco. Insomma, il Friuli compì il miracolo dentro un mondo a rischio e in ebollizione dove venivano meno sicurezze e abitudini, mettendo a repentaglio ogni garanzia, fin dalle fondamenta.

Aver fatto rinascere una terra in simili condizioni fu un altro degli obiettivi raggiunti, ma l’estate del ’76, tra le sofferenze della gente in tenda, divenne un calvario.

Raccontare tutto questo, pur con i limiti, le imperfezioni, i silenzi o cos’altro i contestatori (mai mancati) potevano addebitare, fu uno dei compiti che il “Messaggero Veneto” svolse avendo come punto di riferimento la linea scelta dal direttore Vittorino Meloni che ogni giorno, per settimane e mesi, scrisse in prima pagina il suo editoriale, dedicato a una rapida descrizione dei fatti, ma soprattutto a tenere alto l’orgoglio, il coraggio e il morale della gente.

Articoli che entrarono nel mirino di chi non condivideva una posizione che poteva sembrare di appoggio acritico a chi gestiva l’immane operazione, e cioè la Democrazia cristiana che guidava la Regione con il presidente Antonio Comelli, il governo con Aldo Moro e da giugno con Giulio Andreotti e che aveva inviato quale commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, deputato di Varese.

Tra i documenti dell’epoca ci sono, molto significativi, quelli del luglio ’76 quando più forte si sentì la voce della contestazione attraverso iniziative che coinvolsero, a Udine e a Trieste, i senzatetto e i comitati delle tendopoli dove ferveva una intensa attività di confronto e dialogo.

Ci sono gli atti di un convegno con protagonista il Movimento popolare dove si leggono pagine molto dure sul ruolo della stampa in quei frangenti. Una posizione aperta ed estremamente dialettica venne assunta anche dalla Chiesa friulana, come ben noto.

L’anno successivo la diocesi tenne l’assemblea dei cristiani, da cui uscì una pubblicazione che rappresenta uno dei momenti di riflessione più alti sulla vicenda, riflessione che poi assunse tinte ancora più drastiche negli scritti in friulano di pre Giuseppe Marchetti e pre Checo Placereani, autori di una “Cuintristorie” in cui si partiva dai tempi del Patriarcato arrivando appunto al terremoto.

Prese di posizione che evidenziavano la capillare presenza dei parroci nelle nostre comunità, interpreti principali accanto alla “int” del sentire della gente, sul cui carattere la più intensa e interessante definizione l’ha data probabilmente lo scrittore Carlo Sgorlon quando ha detto: “L'esperienza ha condotto i friulani, con fondati motivi, a una diffidenza cronica nei confronti dello Stato, che essi ritengono prevaricatore, ingiusto, debole, vile, sempre pronto a cedere e ad accontentare coloro che gridano di più, a premiare i retori, i demagoghi, i furbi, gli arrabbiati.

Noi friulani sappiamo, per ragioni ataviche, che niente di buono può venire dal potere e contro di esso esercitiamo il nostro mugugno, il brontolio, la protesta segreta. Però la reazione violenta non si addice ai friulani. Il nostro anarchismo è privato, ordinato. Il nostro anarchismo, che meglio si chiamerebbe individualismo, è di tipo costruttivo, laborioso. Il friulano è un homo faber. Egli esprime la propria personalità nel costruire...». E infatti fu così.

Vittorino Meloni, da abile e attento giornalista, colse bene tutto ciò e in quel tumulto convulso diede ai suoi articoli il compito di suscitare la volontà costruttiva dei friulani, appoggiando certo la linea di Comelli, che era letteralmente sbiancato il giorno in cui, piombato qui da Roma, il ministro dell’Interno Cossiga promise ai sindaci, per tenerli buoni, le case subito.

Comelli aveva messo invece nel conto due o tre anni preparatori per partire con la ricostruzione vera e propria. Prima ci volevano la quantificazione esatta dei danni (per la quale si era rivolto anche all'’rchitetto Luciano Di Sopra), i piani regolatori in tutti i Comuni e leggi adeguate.

Passavano i giorni, si avvicinava l’inverno, tutto appariva immobile, la contestazione cresceva e il “Messaggero Veneto” rimase in prima linea. E bersaglio di chi parlava già di rinascita mancata.

Meloni era direttore da una decina d’anni. Redattori della vecchia guardia avevano lasciato il giornale che dalla sede di via Carducci era passato in viale Palmanova nello stabilimento progettato dall’architetto Gino Valle.

Per riempire i ranghi, Meloni aveva assunto (con intuito e coraggio) alcuni giovani in regione, da Trieste a Gorizia e a Pordenone. Nel 1976 la redazione aveva così una delle età medie più basse in Italia. Al fianco di Meloni c’erano i capiredattori Gianpaolo Nobili, Mario Blasoni, Silvano di Varmo, alla guida di una ventina di cronisti (sedi esterne comprese) per affrontare la concorrenza agguerrita dei giornali nazionali che mandarono gli inviati migliori, da Giorgio Bocca a Giuliano Zincone, Sandro Meccoli, Leonardo Coen eccetera.

Anche la Rai scoprì, aprendo una nuova frontiera, il giornalismo in diretta da prima linea, con gli splendidi reportage di Giuseppe Marrazzo, Gianni Minà, Paolo Frajese, Maurizio Calligaris, Bruno Vespa.

E il “Messaggero Veneto” diede così il massimo crescendo nella diffusione di copie e nel diventare una sorta di social network per tenere unita la comunità friulana, spezzettata tra le tendopoli e le località di mare dove tanti si erano rifugiati.

Andando a visitare la mostra “Memorie”, allestita in questi mesi a Villa Manin, si comprende come quelle cronache nascessero sul campo, nel contatto vero con la gente, come del resto un giornalista doveva allora abitualmente fare non essendoci i sistemi di comunicazione di oggi.

Tra i meriti del quotidiano di Udine, al di là degli editoriali e dei servizi sull’emergenza e sulla rinascita, ci fu l’accurato impegno nella divulgazione scientifica sul rischio sismico, come mai era stato fatto. Lo svolse attraverso gli articoli di Gianpaolo Carbonetto e di Sergio Quadranti (che seguiva la vicenda dall'Istituto Ge. ofisico di Trieste).

Questo, in sintesi, è il “Messaggero Veneto” del 1976. Un gruppo di giornalisti, molto giovani, narrò la calamità che aveva colpito mortalmente il cuore del Friuli. Fu un’estate complicata nella redazione di viale Palmanova, tra pagine scritte ed elaborate in un continuo e teso confronto. Capitoli di una storia che deve essere ancora raccontata nella sua interezza per capire quello che è avvenuto dopo.

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