Fidanzati uccisi a Pordenone, c'è la sentenza: Ruotolo condannato all'ergastolo
Dopo due giorni di camera di consiglio, la Corte d’assise di Udine ha dichiarato colpevole l’unico l’imputato per il duplice delitto avvenuto la sera del 17 marzo 2015, quando a Pordenone in un'auto vennero trovati i corpi senza vita di Teresa e Trifone. I due stavano progettando di passare la vita insieme, anche di sposarsi. Ruotolo invece sognava la Finanza. Abbiamo raccolto qui tutte le tappe della vicenda
Teresa Costanza e Trifone Ragone sono stati uccisi a colpi di pistola la sera del 17 marzo 2015, nel parcheggio del palazzetto dello sport di Pordenone.
Ruotolo ha ascoltato il verdetto con gli occhi bassi al fianco dei suoi avvocati. Alle sue spalle il papà e il fratello. In aula c'erano anche i familiari delle vittime, i genitori e i fratelli del militare di Adelfia (Bari), Trifone Ragone, e la mamma, il papà e un fratello di Teresa Costanza.
Alla sentenza è legato non solo il destino dell’imputato, ma quello di tre famiglie. Come quella di Rosario Costanza, imprenditore di origine agrigentina emigrato prima in Germania e poi trapiantato a Zelo di Buon Persico, in provincia di Lodi, e della moglie Carmelina Parello, con i figli Calogero, il primogenito che ha seguito le orme del padre nel ramo delle costruzioni e Sergio, laureato in architettura. «Quando arrivava Teresa in casa, arrivava il sole», hanno ricordato in udienza.
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L'omicidio: le tappe
Quel sole è stato spento il 17 marzo 2015, nel parcheggio del palasport di Pordenone in via Interna. Quel volto radioso, incorniciato da una chioma bionda, e il suo sorriso si sono raggelati alla vista dell’assassino, che ha proteso la pistola verso di lei, dentro all’abitacolo della Suzuki Alto, dopo aver appena esploso tre colpi di pistola contro il fidanzato Trifone Ragone, che si stava sedendo sul sedile del passeggero dopo una sessione di crossfit in palestra, con gli infradito gialli ai piedi. Il killer lo ha sorpreso alle spalle con il primo proiettile. Sei colpi di pistola hanno cancellato in una manciata di secondi il futuro di una coppia innamorata.
-TERESA COSTANZA Trentenne, laureata in economia aziendale alla Bocconi, ha lasciato la promettente carriera di assicuratrice per amore di Trifone e si è trasferita da Milano a Pordenone
- TRIFONE RAGONE 28 anni, originario di Adelfia, caporalmaggiore di stanza al 132º Reggimento dei carristi di Cordenons, appassionato di crossfit, sognava di sposare Teresa e entrare nella Guardia di finanza
- GIOSUE’ RUOTOLO 28 anni, originario di Somma Vesuviana, ex commilitone e coinquilino di Trifone, condivideva con lui la passione per la palestra e le serate in discoteca prima che l’amico conoscesse Teresa ma anche il sogno della Finanza
Teresa si era trasferita a Pordenone, in un appartamentino in via Chioggia, dopo una breve convivenza con gli altri tre commilitoni Giosuè Ruotolo, Sergio Romano e Daniele Renna in via Colombo. I fidanzati progettavano di sposarsi, di mettere su famiglia. Trifone, 28 anni, originario di Adelfia, caporalmaggiore dell’esercito, era di stanza al 132º reggimento carri di Cordenons, ma il suo sogno era di far parte della Guardia di finanza e aveva già superato con successo le prime selezioni. «Trifone era il pilastro della nostra famiglia», hanno raccontato ai giudici i genitori Eleonora Ferrante, che lavora in banca e Francesco Ragone, impiegato in tribunale a Bari, ma anche i suoi fratelli Giuseppe e Gianni. Tutti loro hanno dovuto trovare la forza di sopravvivere al dolore. Avrebbero voluto festeggiare un matrimonio e invece hanno dovuto celebrare il funerale dei loro ragazzi.
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C’era anche Giosuè Ruotolo al picchetto d’onore per Trifone ad Adelfia, fra i commilitoni che hanno portato a spalla la sua bara. «Mentre stavamo uscendo dalla chiesa – il racconto in aula del militare Pasquale Pone, 26 anni – con la bara di Trifone sulle spalle, ho sentito dietro di me Giosuè che mormorava: “Non ce la faccio, non ce la faccio”. Io gli ho detto: “Fatti forza”, perché mancava ancora un lungo tratto». Erano amici, Giosuè e Trifone. Tanto che è stato proprio quest’ultimo a coinvolgerlo nella convivenza fuori dalla caserma con Daniele Renna e Sergio Romano. Sognavano entrambi la Finanza, mentre si allenavano in palestra e andavano insieme in discoteca la sera.
Poi in via Colombo, secondo la Procura, l’armonia è andata in frantumi, per screzi di piccolo conto. Il giorno in cui Trifone è andato a vivere con Teresa, il 26 giugno 2014, sono iniziati i messaggi anonimi su Facebook, per dividere i due fidanzati. «Li abbiamo pensati insieme, io, Renna e Romano», affermerà Giosuè al processo. Ma la cosa, secondo lui, non ha avuto poi seguito. «Ho affrontato tanti sacrifici lontano dalla mia famiglia, e avrei buttato tutto all’aria per dei messaggi?», ha domandato Giosuè ai giudici. Il pm Vallerin lo ha definito «capace di atti diabolici e menzogne epocali». Per sua mamma Vincenza, insegnante, e papà Alfonso, ex operaio in pensione, Giosuè è invece incapace di fare del male a una mosca. Chi è davvero? I giudici dovranno deciderlo sulla base degli atti del processo e rispondere a una seconda domanda tutt’altro che semplice, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Accusa e difesa
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Il mistero della Beretta
Come si è procurato la pistola il killer di Teresa e Trifone? È un mistero rimasto insoluto. Di quella vetusta Beretta, arrugginita e riverniciata di nero, le tracce si sono perse all’uscita dalla fabbrica di Cremona, nel 1922. Sappiamo che si tratta di un’arma semiautomatica, estremamente maneggevole, brevetto 1915-1919, calibro 7.65 Browning. Il numero di serie impresso sulla pistola, 200264, non è stato abraso. Segno, secondo gli inquirenti, che la vecchia Beretta non è stata acquistata attraverso i canali clandestini. Era un cimelio di famiglia, sottratto a un parente o a un amico a sua insaputa?
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È stata trovata in un mercatino o acquistata su qualche sito specializzato, dove una pistola simile si può comprare per poche centinaia di euro? Non è stato possibile scoprire la provenienza della pistola perché all’epoca della sua fabbricazione la registrazione delle armi non era più necessaria. Nessun testimone si è fatto avanti per offrire un tassello che spiegasse come quella pistola sia arrivata a Pordenone, nelle mani del killer dei fidanzati. Gli inquirenti non hanno trovato nemmeno collegamenti fra la Beretta e l’imputato. Il settimo colpo è rimasto in canna: si è inceppato. Fosse stato il primo a bloccarsi, Trifone avrebbe avuto il tempo di reagire e impedire il duplice omicidio.
E avremmo scritto un’altra storia. Su quel proiettile, di marca Fiocchi, rimasto inesploso, i Ris di Parma hanno individuato l’impronta di un polpastrello. Parziale, ma non riconducibile in alcun modo all’imputato. Su uno dei bossoli rinvenuti all’interno dell’auto, entrato però a contatto con il tappetino, i detective hanno trovato un profilo genetico misto: la parte maggioritaria apparteneva a Trifone, quella minoritaria a un Dna femminile. Per l’accusa è una traccia da contaminazione, per la difesa potrebbe trattarsi del sudore di chi ha inserito i bossoli.
La telecamera guasta che portò all'imputato
[[(Video) Fidanzati uccisi a Pordenone, la ricostruzione degli spostamenti di Giosuè]]
[[(Video) Fidanzati uccisi a Pordenone, il Video integrale del sopralluogo di Giosuè con i pm]]
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