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La scommessa di Inque, rivista che nasce e resterà sempre e solo su carta
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La scommessa di Inque, rivista che nasce e resterà sempre e solo su carta

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La canzone è nota, anche perché molto orecchiabile. “Per uscire dalle sabbie mobili che rischiano di inghiottire la carta stampata l’unica strada è aumentare la qualità”, ripete chiunque traffichi con libri e giornali, in genere un attimo prima di fare quanto in suo potere per abbassarla. Ma il guaio delle canzoni è che prima o poi qualcuno le prende sul serio, e se gli altri gli danno del fesso, pazienza.
Matt Willey è stato per anni l’art director del New York Times Magazine, ed è socio di Pentagram, la più illustre gilda di designer al mondo. La sua estetica – foto tagliate, colorate, in parte coperte da grandi cerchi colorati anche loro – è al momento una di quelle che danno la linea, persino a una testata tradizionalmente austera come la Paris Review. Insieme a Dan Crowe, suo compare in altri azzardi editoriali come Avaunt o Port, ora Willey ha fatto un passo più in là. Tutti aspettano che sia più lungo della gamba, ma non è detto.
Inque è un nome civettuolo a vedersi, ma letto a voce alta evoca, perlomeno agli anglofoni, un programma, che la nuova rivista si impegna a mantenere in modo anche piuttosto radicale. Tanto per cominciare, esisterà solo su carta. È online un sito web, è annunciato un podcast, ma non sono previste versioni o anticipazioni digitali dei testi, né tantomeno commenti (e qui, dal profondo dell’educazione di noi tutti, emerge un corale “Sia lodato Gesù Cristo”). Poi – e questa sì è una mossa inconsueta – Crowe e Wiley hanno messo in preventivo la domanda che si pone chiunque apra una rivista: “Quando ci stuferemo noi di farla, o i lettori di leggerla?”. Fra dieci anni, hanno scommesso i due, anticipando che di Inque usciranno in tutto dieci numeri, uno all’anno. Dieci anni sono un’era, in editoria, ma la speranza dei due è che a tenere in piedi il progetto basti comunque la confezione, sontuosa in tutto, dalla carta alla stampa alla tipografia.


Incognite? Essenzialmente due, entrambe interessanti.
La prima è il prezzo, in grado da solo di indurre disturbi psicosomatici a qualsiasi manager editoriale: 55 sterline. Come sempre in queste circostanze, il problema è capire in quanti saranno disposti a spenderle, anche perché nel tempo l’antica contrapposizione di Orwell, libri contro sigarette, è diventata molto meno sostenibile, e in questo caso suona come magazine contro ristorante in centro – o pizzeria fuori la cerchia, nel caso viviate a Milano. Comunque sia, Wiley e Crowe hanno scommesso che i volontari saranno 6.000. Uno sta scrivendo quest’articolo, e d’accordo, ma ne mancano ancora 5.999, che non sono pochi.
La scommessa da vincere, però, non è neppure questa. Sul primo numero di Inque scrivono molti dei non moltissimi che oggi hanno qualcosa da dire, da Margaret Atwood a Max Porter, da Jia Tolentino a Tom Waits, e il sommario propone titoli diversificati quanto lo si può desiderare: un’intervista di Atwood a Orwell, un’indagine di Philip Hoare sulla zoologia semifantastica di Dürer, un viaggio quasi immaginario di Jasmine Hughes nell’edificio che ospita l’archivio cartaceo del New York Times, affettuosamente detto, dai suoi curatori, La Morgue. Più photo essay, finzione e altro ancora.
E allora?
E allora, non è del tutto un caso che il contenuto di Inque sia arrivato per ultimo, fra gli argomenti di interesse di questo pezzo. Dovesse risalire la graduatoria anche solo di qualche posizione, cominceremmo a intravvedere un ecosistema editoriale forse non perfetto, ma almeno abitabile.