Il friulano Pierluigi Cappello trionfa al Premio Viareggio
Pierluigi Cappello è il terzo poeta del Friuli Venezia Giulia sceso in campo al Viareggio, oltre mezzo secolo dopo Pasolini, ha fatto un en plein. A lui, infatti, è andato l’81º premio Viareggio-Rèpaci per la poesia con “Mandate a dire all’imperatore”.
4 minuti di lettura
Meglio di Umberto Saba, che nel 1946 si aggiudicò il premio Viareggio con il Canzoniere, ex aequo con Silvio Micheli. Meglio di Pier Paolo Pasolini, in lizza nel 1957 con Le ceneri di Gramsci, un altro ex aequo con Sandro Penna e Alberto Mondadori. Pierluigi Cappello, il terzo poeta del Friuli Venezia Giulia in campo al Viareggio, oltre mezzo secolo dopo Pasolini, ha fatto un en plein. A lui, infatti, è andato l’81º premio Viareggio-Rèpaci per la poesia con Mandate a dire all’imperatore (Crocetti), impostosi su Superstiti (San Marco dei Giustiniani) di Michele Sovente. Al terzo della rosa finalista, il poeta Fernando Bandini, in concorso con Quattordici poesie, edito da L'Obliquo, è andato un ricoscimento alla carriera, il premio del Presidente. Lo ha decretato la giuria presieduta da Rosanna Bettarini.
Per la narrativa vince Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia edito da Einaudi, romanzo sulla Bari degli anni Ottanta. È invece un matematico, Michele Emmer, con Bolle di sapone. Tra arte e matematica, pubblicato da Bollati Boringhieri, a vincere il premio per la saggistica.
Scrittore, giornalista e politico fra i più importanti del suo tempo, Mario Vargas Llosa è infine il vincitore del Premio internazionale Viareggio-Versilia: un artista a tutto tondo, capace di scrivere romanzi che sfiorano il sublime così come di impegnarsi in battaglie civili che assorbono gran parte delle sue energie (anche se lui si definisce uno schiavo volontario e felice della letteratura). Fine polemista, ama l'affondo paradossale e il resoconto vivace delle sue disavventure e delle sue idee.
di Mario Turello
Sibilla Aleramo, Corrado Govoni, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Carlo Betocchi, Giacomo Noventa, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Paolo Volponi, Alfonso Gatto, Diego Valeri, Giovanni Giudici, Ignazio Buttitta, Leonardo Sinisgalli, Dario Bellezza, Tommaso Landolfi, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Luciano Erba, Maria Luisa Spaziani, Vittorio Sereni, Vasco Pratolini, Valerio Magrelli, Giovanni Raboni, Alda Merini, Giuseppe Conte, Ennio Cavalli... E ora anche Pierluigi Cappello.
Scorriamo con lui l’albo d’oro del premio Viareggio, fondato nel 1929 da Leonida Rèpaci, ma è da Pier Paolo Pasolini, che nel 1957 fu vincitore ex aequo con Sandro Penna e Alberto Mondadori, che prende l’avvio questa nostra chiacchierata. Poiché, se tutta la poesia friulana è debitrice nei confronti di Pasolini, pochi, e nessuno come Cappello, hanno reso omaggio al poeta di Casarsa. Ci riferiamo ad Amôrs, la raccolta in friulano che ha come figura centrale il donzel pasoliniano. Non un’operazione puramente mimetica, ma l’elevazione al quadrato di un simbolo letterario: «Se in Pasolini il donzel già era simbolo della disarmata innocenza, intrisa di sacro, dei ragazzi di Casarsa – dice Cappello –, io ne ho fatto l’unico interlocutore possibile del mio discorso poetico: il mio donzel è l’estroversione, la teatralizzazione dell’io». È stato un momento importante, quello della produzione in friulano, ma pare concluso. Ne chiediamo la ragione, e Cappello risponde di avere la consapevolezza di non vedere altri sbocchi per quell’esperienza, di aver fatto il fattibile per conferire al friulano un esito aurorale, simile a quello del volgare duecentesco. Oggi è piuttosto con la traduzione (da Caproni, Shakespeare, Szymborska...) che mette alla prova la marilenghe: è sempre una sfida intellettuale tradurre dalle grandi lingue europee in una dal lessico povero come la nostra, è un singolare laboratorio di tensione/torsione che va ben oltre la trascrizione – e non più che trascrizioni paiono a Cappello molte delle pretese traduzioni in friulano. Una sfida, e «il piacere artigianale di acquisizioni lente e progressive».
Una dichiarazione, questa, che applichiamo a tutto il suo fare poetico, a quello degli esordi soprattutto. La sua prima raccolta, Le nebbie (non compresa in Assetto di volo, con scelta fin troppo severa), testimonia di un apprendistato paziente, severo, meticoloso, teso alla padronanza degli strumenti fonici, metrici, strutturali del poiein. «È un requisito imprescindibile dell’esercizio poetico – sostiene Cappello –, solo quando si ha pieno controllo delle forme è consentito andare oltre». E racconta di avere letteralmente sillabato, manuale di metrica alla mano, Dante, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Leopardi, Foscolo, e di avere molto appreso dai poeti barocchi (a cominciare da Ciro di Pers, secondo solo a Marino, ma sottovalutato in Friuli), dalla tecnica spinta all’oltranza del manierismo. Ma altrettanto inderogabile è la conoscenza, per assidua frequentazione, della grande tradizione poetica (di quella occidentale, almeno, le altre ci giungono troppo distorte, fraintese): anche in questo caso, il “tradimento” è legittimo, anzi è atto e consegna d’amore (tradizione e tradimento hanno lo stesso etimo in “tradere”).
Lo stesso vale nei confronti dei maestri che il poeta elegge per affinità. Due sono gli autori per eccellenza di Cappello: Giorgio Caproni e Umberto Saba, esempi di due qualità somme della poesia: della verità il primo, dell’onestà il secondo. In Caproni egli vede realizzato «l’accordo tra il fine e il popolare»: «Fino agli anni Cinquanta – osserva – non avevamo una lingua nazionale, se non curiale; lingue veicolari erano i dialetti. In questa dicotomia venne a inserirsi il linguaggio televisivo, sostituendosi sia all’italiano illustre che al dialetto, e corrodendo e impoverendo entrambi. Il compito del poeta è riavvicinare, ricucire i lembi dell’alto, del sublime, e del popolare: restituire verità alla lingua».
Gli chiediamo come sia riconoscibile questa verità. «È una percezione biologica, non razionale, che riguarda tanto lo spirito che il corpo in tutte le fibre e i sensi», risponde Cappello, «non per nulla la poesia è la forma letteraria più antica». E da Umberto Saba riceve il valore della poesia onesta: una poesia cioè che abbia decantato tutti i residui della letterarietà, scevra da scorciatoie e furbizie, con la quale il poeta si presenti uomo fra gli uomini, esprimendo un «realismo interiore» senza presunzioni. Onestà che sul piano formale «nel mio caso – dice Cappello – comporta nitidezza fonica, pulizia semantica, un dettato apparentemente semplice».
Il discorso torna a Pasolini, che nel 1957 che ottenne il Viareggio per Le ceneri di Gramsci. Dopo le affinità, le divergenze. «Mezzo secolo dopo, la funzione poeta non è più socialmente riconosciuta; l’ultimo poeta che ebbe figura pubblica è stato Mario Luzi, senatore a vita. Ai tempi di Pasolini era possibile parlare dei grandi temi con posture foscoliane, oggi si può fare solo spogliandosi delle vesti del poeta. Ma scrivere poesia è di per sé un atto di resistenza; la poesia è naturaliter antagonista di questa società, non omologabile com’è rispetto al linguaggio massificato, corroso dal tarlo dell’obsolescenza. Pensi agli slogan: dopo un anno la loro apparente dirompenza suona patetica, vuota di senso. Esattamente il contrario è della poesia, che cerca di accompagnare le parole nel futuro, e con le parole la nostra coscienza».
E allora: poesia resistenziale, ma anche salvifica, secondo l’auspicio dostoevskiano? Risponde Cappello che certamente quella deve essere l’ambizione, ma che oggettivamente oggi c’è da disperarne, e ciò sembra valere non solo per la poesia ma per ogni forma di riflessione. Resistenza, allora: «Qui c’è da camminare nel buio della parola», manda a dire Cappello all’imperatore. C’è, osservo, un apparente paradosso nel suo ultimo libro dal titolo così perentorio, e dal contenuto così intimo, privato, spesso elegiaco. «Quello che voglio – mi spiega il poeta – è appunto richiamare alla concretezza della vita: sappia l’imperatore che così vivono i sudditi».
D’altro ancora parliamo, che non trova qui spazio. Ma questo almeno voglio aggiungere: a proposito del suo rivolgersi ai morti, alla mia osservazione che oggi molto si parla delle responsabilità verso le generazioni future ma poco di quelle verso le generazioni passate, Cappello mi dice essere stata questa una formidabile intuizione di Brodskij: che il poeta è responsabile anche verso coloro che lo hanno preceduto. Gli chiedo come ciò avvenga: «La cura con cui si scrive – mi risponde, e mi sembra bellissimo – si irradia anche nel passato».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Per la narrativa vince Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia edito da Einaudi, romanzo sulla Bari degli anni Ottanta. È invece un matematico, Michele Emmer, con Bolle di sapone. Tra arte e matematica, pubblicato da Bollati Boringhieri, a vincere il premio per la saggistica.
Scrittore, giornalista e politico fra i più importanti del suo tempo, Mario Vargas Llosa è infine il vincitore del Premio internazionale Viareggio-Versilia: un artista a tutto tondo, capace di scrivere romanzi che sfiorano il sublime così come di impegnarsi in battaglie civili che assorbono gran parte delle sue energie (anche se lui si definisce uno schiavo volontario e felice della letteratura). Fine polemista, ama l'affondo paradossale e il resoconto vivace delle sue disavventure e delle sue idee.
di Mario Turello
Sibilla Aleramo, Corrado Govoni, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Carlo Betocchi, Giacomo Noventa, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Paolo Volponi, Alfonso Gatto, Diego Valeri, Giovanni Giudici, Ignazio Buttitta, Leonardo Sinisgalli, Dario Bellezza, Tommaso Landolfi, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Luciano Erba, Maria Luisa Spaziani, Vittorio Sereni, Vasco Pratolini, Valerio Magrelli, Giovanni Raboni, Alda Merini, Giuseppe Conte, Ennio Cavalli... E ora anche Pierluigi Cappello.
Scorriamo con lui l’albo d’oro del premio Viareggio, fondato nel 1929 da Leonida Rèpaci, ma è da Pier Paolo Pasolini, che nel 1957 fu vincitore ex aequo con Sandro Penna e Alberto Mondadori, che prende l’avvio questa nostra chiacchierata. Poiché, se tutta la poesia friulana è debitrice nei confronti di Pasolini, pochi, e nessuno come Cappello, hanno reso omaggio al poeta di Casarsa. Ci riferiamo ad Amôrs, la raccolta in friulano che ha come figura centrale il donzel pasoliniano. Non un’operazione puramente mimetica, ma l’elevazione al quadrato di un simbolo letterario: «Se in Pasolini il donzel già era simbolo della disarmata innocenza, intrisa di sacro, dei ragazzi di Casarsa – dice Cappello –, io ne ho fatto l’unico interlocutore possibile del mio discorso poetico: il mio donzel è l’estroversione, la teatralizzazione dell’io». È stato un momento importante, quello della produzione in friulano, ma pare concluso. Ne chiediamo la ragione, e Cappello risponde di avere la consapevolezza di non vedere altri sbocchi per quell’esperienza, di aver fatto il fattibile per conferire al friulano un esito aurorale, simile a quello del volgare duecentesco. Oggi è piuttosto con la traduzione (da Caproni, Shakespeare, Szymborska...) che mette alla prova la marilenghe: è sempre una sfida intellettuale tradurre dalle grandi lingue europee in una dal lessico povero come la nostra, è un singolare laboratorio di tensione/torsione che va ben oltre la trascrizione – e non più che trascrizioni paiono a Cappello molte delle pretese traduzioni in friulano. Una sfida, e «il piacere artigianale di acquisizioni lente e progressive».
Una dichiarazione, questa, che applichiamo a tutto il suo fare poetico, a quello degli esordi soprattutto. La sua prima raccolta, Le nebbie (non compresa in Assetto di volo, con scelta fin troppo severa), testimonia di un apprendistato paziente, severo, meticoloso, teso alla padronanza degli strumenti fonici, metrici, strutturali del poiein. «È un requisito imprescindibile dell’esercizio poetico – sostiene Cappello –, solo quando si ha pieno controllo delle forme è consentito andare oltre». E racconta di avere letteralmente sillabato, manuale di metrica alla mano, Dante, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Leopardi, Foscolo, e di avere molto appreso dai poeti barocchi (a cominciare da Ciro di Pers, secondo solo a Marino, ma sottovalutato in Friuli), dalla tecnica spinta all’oltranza del manierismo. Ma altrettanto inderogabile è la conoscenza, per assidua frequentazione, della grande tradizione poetica (di quella occidentale, almeno, le altre ci giungono troppo distorte, fraintese): anche in questo caso, il “tradimento” è legittimo, anzi è atto e consegna d’amore (tradizione e tradimento hanno lo stesso etimo in “tradere”).
Lo stesso vale nei confronti dei maestri che il poeta elegge per affinità. Due sono gli autori per eccellenza di Cappello: Giorgio Caproni e Umberto Saba, esempi di due qualità somme della poesia: della verità il primo, dell’onestà il secondo. In Caproni egli vede realizzato «l’accordo tra il fine e il popolare»: «Fino agli anni Cinquanta – osserva – non avevamo una lingua nazionale, se non curiale; lingue veicolari erano i dialetti. In questa dicotomia venne a inserirsi il linguaggio televisivo, sostituendosi sia all’italiano illustre che al dialetto, e corrodendo e impoverendo entrambi. Il compito del poeta è riavvicinare, ricucire i lembi dell’alto, del sublime, e del popolare: restituire verità alla lingua».
Gli chiediamo come sia riconoscibile questa verità. «È una percezione biologica, non razionale, che riguarda tanto lo spirito che il corpo in tutte le fibre e i sensi», risponde Cappello, «non per nulla la poesia è la forma letteraria più antica». E da Umberto Saba riceve il valore della poesia onesta: una poesia cioè che abbia decantato tutti i residui della letterarietà, scevra da scorciatoie e furbizie, con la quale il poeta si presenti uomo fra gli uomini, esprimendo un «realismo interiore» senza presunzioni. Onestà che sul piano formale «nel mio caso – dice Cappello – comporta nitidezza fonica, pulizia semantica, un dettato apparentemente semplice».
Il discorso torna a Pasolini, che nel 1957 che ottenne il Viareggio per Le ceneri di Gramsci. Dopo le affinità, le divergenze. «Mezzo secolo dopo, la funzione poeta non è più socialmente riconosciuta; l’ultimo poeta che ebbe figura pubblica è stato Mario Luzi, senatore a vita. Ai tempi di Pasolini era possibile parlare dei grandi temi con posture foscoliane, oggi si può fare solo spogliandosi delle vesti del poeta. Ma scrivere poesia è di per sé un atto di resistenza; la poesia è naturaliter antagonista di questa società, non omologabile com’è rispetto al linguaggio massificato, corroso dal tarlo dell’obsolescenza. Pensi agli slogan: dopo un anno la loro apparente dirompenza suona patetica, vuota di senso. Esattamente il contrario è della poesia, che cerca di accompagnare le parole nel futuro, e con le parole la nostra coscienza».
E allora: poesia resistenziale, ma anche salvifica, secondo l’auspicio dostoevskiano? Risponde Cappello che certamente quella deve essere l’ambizione, ma che oggettivamente oggi c’è da disperarne, e ciò sembra valere non solo per la poesia ma per ogni forma di riflessione. Resistenza, allora: «Qui c’è da camminare nel buio della parola», manda a dire Cappello all’imperatore. C’è, osservo, un apparente paradosso nel suo ultimo libro dal titolo così perentorio, e dal contenuto così intimo, privato, spesso elegiaco. «Quello che voglio – mi spiega il poeta – è appunto richiamare alla concretezza della vita: sappia l’imperatore che così vivono i sudditi».
D’altro ancora parliamo, che non trova qui spazio. Ma questo almeno voglio aggiungere: a proposito del suo rivolgersi ai morti, alla mia osservazione che oggi molto si parla delle responsabilità verso le generazioni future ma poco di quelle verso le generazioni passate, Cappello mi dice essere stata questa una formidabile intuizione di Brodskij: che il poeta è responsabile anche verso coloro che lo hanno preceduto. Gli chiedo come ciò avvenga: «La cura con cui si scrive – mi risponde, e mi sembra bellissimo – si irradia anche nel passato».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I commenti dei lettori