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San Daniele, il terremoto in un minuto distrusse Cimano

Cinque persone persero la vita, tre nella frazione che il giorno dopo non esisteva più. L’ex sindaco Filipuzzi racconta la disperazione: non dimenticherò mai i morti

di Giacomina Pellizzari
5 minuti di lettura

SAN DANIELE. Non si può raccontare quei giorni senza aver letto il libro “Ricordi del periodo dell’emergenza e considerazioni sulla ricostruzione a San Daniele” pubblicato dal Comune dieci anni dopo la tragedia. Nel volume l’ex sindaco e il suo braccio destro, Francesco Ciani, allora studente universitario e poi volontario, descrivono passo passo l’emergenza.

[[(gele.Finegil.StandardArticle2014v1) A San Daniele l’ospedale inagibile, ma i chirurghi iniziarono a operare]]

Nelle ore immediatamente successive alle scosse, San Daniele era al buio. Nelle strade deserte solo qualche capannello di persone davanti ai mucchi di macerie. Dietro al Monte di Pietà due auto erano state sepolte dai crolli, tutto sembrava irreale, incomprensibile.

Alle 23, i fasci di due fotoelettriche illuminarono il cielo e a San Daniele videro arrivare una uomo scalzo. Indossava solo i pantaloni e la camicia. Era un rappresentante di commercio di Padova ospite di un albergo di Osoppo. L’edificio era crollato, lui si era salvato per miracolo, ma l’automobile era rimasta sotto le macerie. Partì a piedi, voleva raggiungere a tutti i costi la sua famiglia.

A quell’ora il sindaco era già a Cimano. Accompagnato da don Remigio Tosoratti vide scavare la gente a mani nude. Era ancora troppo presto per vedere in azione i soccorritori e i volontari bloccati nei luoghi più disastrati come Gemona, Venzone e Osoppo, dove si contavano centinaia di morti.

«Vedere i morti sotto le macerie mi colpì profondamente - ricorda Filipuzzi -. Il giorno dopo andai a trovare il mio amico Benvenuti a Gemona e lì mi resi conto cos’era stato il terremoto». Di fronte alla distruzione di Gemona, Filipuzzi capì «come può la terra ribellarsi alle nostre regole».

In mezzo a tanta disperazione nessun modello preconfezionato, nessuno schema veniva applicato. In quel caos trovava spazio solo l’organizzazione fai da te.

Ma il sindaco non si perse d’animo e assunse due decisioni che con il senno di poi si rivelarono lungimirante: «L’aver fatto tamponare con muri in mattoni tutti gli archi del centro storico ha indiscutibilmente contribuito a restituirceli nella loro originale integrità e bellezza. L’aver eseguito puntellamenti - rivela Ciani - l’aver alleggerito e protetto le coperture, è stata una concreta anticipazione di quella scelta che, ponderata in momenti successivi e meno angosciosi, consentì di effettuare l’opzione fondamentale, quella di fare di San Daniele un grande cantiere di restauro».

Fu una scelta coraggiosa perché, aggiunge Filipuzzi, il Comune non aveva i fondi a disposizione. «Qualcuno pagherà» pensò il sindaco e in effetti fu così perché da lì a poco la Soprintendenza alle belle arti si sarebbe fatta carico dei restauri dei monumenti.

In quelle ore, il Comune mandò i tecnici a effettuare i primi sopralluoghi nelle case danneggiate. I rilievi consentirono di compilare, in pochi giorni, un quadro preciso dei danni. Tutti gli edifici del centro storico erano lesionati, il palazzo della biblioteca Guarneriana era gravemente danneggiato come il duomo, pericolante anche la chiesa del castello.

La sommità del campanile era crollata quella notte. Analogo il verdetto per le chiese di Fratta e di Sant’Antonio. «Le opere d’arte - continua l’ex sindaco - furono portate in salvo a Villa Manin e nell’ex chiesa di San Francesco a Udine».

Anche il municipio era impraticabile, gli uffici furono trasferiti nei locali della scuola media. La distruzione però regnava a Cimano: borgo Ceschia era raso al suolo. Ciani descrive con molto dolore le ricerche di Tiziana, la bambina che rimase due ore sotto le macerie al fianco della zia morta. La donna si chiamava Lucia Sabbadello.

La piccola probabilmente dormiva, la svegliarono i rumori, si mise a piangere e la sua vocina venne avvertita dai soccorritori. E come se non bastasse, a borgo Ceschia, quella notte, si sviluppò anche un incendio. Le fiamme partirono dal trasformatore di un televisore.

Il sindaco, invece, non può dimenticare il ritrovamento del corpo di Innocente Molinaro, estratto con l’escavatore tra i ruderi delle case. Una coppia, però, riuscì a trarsi in salvo con le proprie forze. Di fronte alla tragedia il sindaco puntò subito sul dialogo con la gente, non voleva che le famiglie, da quelle che piangevano i morti a quelle che avevano perso la case, si sentissero abbandonate.

L’obiettivo di legare la gente all’istituzione venne centrato ed «evitò - sono sempre le parole dell’ex sindaco - la costituzione del comitato delle tendopoli. Nessuno si oppose, neppure i consiglieri di opposizione che, fin dal primo giorno, si dimostrarono pronti alla collaborazione».

Ma torniamo a San Daniele. All’epoca il centro storico era abitato da circa 8 mila persone. Tante trovarono rifugio nella palestra di via Udine. Il centro venne transennato, chiuso al traffico, e nel giro di 24 ore al suo interno si presentava deserto. Il municipio diventò una sorta di quartier generale, mentre nell’ospedale e nei locali del Giardino d’infanzia furono ammassati gli aiuti.

Le tende a San Daniele arrivarono la terza notte dopo il terremoto. La Prefettura le destinò, in primis, a Cimano. Almeno 800, riferisce sempre Ciani, furono installate sulla base dei criteri decisi sul momento. Erano i giorni in cui automobili dotate di megafoni circolavano per le strade invitando la popolazione a non bere l’acqua dell’acquedotto.

I tecnici temevano che il dissesto provocato dal terremoto avesse avuto conseguenze negative rendendo l’acqua non potabile, solo alcuni giorni dopo accertarono che non era così. A vigilare sulla distribuzione dei viveri furono i Comitati dei borghi che in ogni frazione avevano organizzato la raccolta.

Effettivamente gli aiuti arrivavano. Un gruppo di ragazzi di Marostica era giunto a San Daniele carico di tende. Le stesse furono utilizzate fino a quando i militari non iniziarono a installare le tendopoli. Subito dopo un camion dell’esercito canadese tentò di superare il Portonat, ma rimase incastrato, trasportava l’ospedale da campo. I militari sistemarono anche la cucina da campo e iniziò la distribuzione dei pasti nelle borgate.

Parallelamente prendeva forma il Centro operativo di soccorso allestito dal commissario del Governo, Giuseppe Zamberletti, su base territoriale. A San Daniele facevano capo Ragogna, Forgaria e Majano, era coordinato dal vice prefetto di Modena, Giancarlo Trevisone. Intanto le commissioni tecniche entravano nelle case sventrate e compilavano le perizie.

La legge 17 era stata approvata e qualcuno già iniziava ad aprire i primi cantieri. Ma venne settembre con le nuove scosse che, ancora una volta, misero sottosopra San Daniele. A maggio, scrive sempre Ciani, sulle facce della gente si leggeva stupore, incredulità, confusione.

A settembre si leggevano rabbia, sconforto, progressiva perdita di ogni capacità di reazione ponderata». Non mancarono i crolli e neppure il peggioramento delle condizioni statiche degli edifici. Lo staff del Comune tornò ad assistere la gente nelle piazze.

Il terremoto aveva cancellato anche gli interventi di ristrutturazione in corso o completati. «A settembre - aggiunge Filipuzzi - imparammo che dopo un terremoto di quelle dimensioni, per un anno bisogna restare fermi».
In quelle ore, a differenza di quattro mesi prima, le strade erano vuote. Incominciò a piovere e la sensazione fu quella che nulla sarebbe stato come prima.

La gente comprese che doveva lasciare i luoghi di sempre per consentire alle squadre di operai di allestire i prefabbricati. L’ex sindaco e Ciani andarono in centro e trovarono la desolazione. Capirono che la macchina dell’emergenza si era rimessa in moto quando incontrarono un tenente dei carabinieri visibilmente agitato. Cercava il Centro operativo di soccorso al quale era stato assegnato.

Ancora una volta una camionetta dotato di megafono riprese a circolare: invitava la gente a sfollare. La popolazione fu costretta a trasferirsi a Lignano e a Bibione. Passata la paura, però, il terrore di perdere i contatti con i luoghi era ancora troppo forte.

L’esodo riguardò il 15 per cento della popolazione, circa mille persone. In entrambe i casi, gli anziani erano quelli che soffrivano di più. Non accettavano la distruzione e tanto meno l’idea di trascorrere l’inverno lontani da quel che restava delle loro case.

Nelle località balneari vennero sistemati in due alberghi. L’altro problema da affrontare era la sistemazione degli artigiani e dei contadini che non potevano lasciare le loro aziende. «Zamberletti acquistò 200 Krivaya, le casette prefabbricate prodotte in Jugoslavia, e le installò vicino alle case» ricorda l’ex sindaco precisando che anche questa fu una scelta per evitare a chi aveva le stalle di sfollare.

«Con gli aiuti ricevuti dagli americani realizzammo il centro anziani e la scuola media, l’elementare e la materna» insiste l’ex sindaco ricordando che per evitare la depressione e quindi gesti estremi tra la popolazione, il Comune affittò e gestì per un anno l’albergo a Pradibosco (Forni Avoltri).

«Decidemmo di tenere anziani e bambini fuori dal paese» insiste Filipuzzi soffermandosi su un dato: «In cinque anni ricostruimmo tutto quello che era caduto. Grazie alla mensa che decisi di preparare dopo il 6 maggio nelle ex carceri dismesse, riuscimmo a portare due grosse imprese da Trieste e da Venezia alle quali affidammo i lavori della ricostruzione».
 

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