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Maran e il futuro Pd: «È finito un mondo e si va alle Europee in maniera caotica»

Udine, l’ex senatore analizza gli scenari dopo le primarie nazionali. «Il partito si deve augurare la nascita di qualcosa al centro»

2 minuti di lettura

UDINE. La politica “attiva” – intesa come impegno dentro al partito e nelle istituzioni – Alessandro Maran l’ha archiviata alla fine della passata legislatura, da vicecapogruppo uscente del Pd a palazzo Madama. Ma per l’ex senatore – tra un intervento sui quotidiani nazionali e il nuovo ruolo al vertice dell’associazione Libertàeguale – resta comunque qualcosa che è parte del suo dna al pari dell’appartenenza a una sinistra più liberale che classica.

E così, scevro da problemi contingenti, può permettersi, dal suo osservatorio esperto, di analizzare lo status quo dei dem post-primarie.

Maran quale scenari si sono aperti per il Pd dopo l’esito delle primarie?

«Direi che si è verificato quanto di più logico potessi aspettarmi e cioè il ritorno alle vecchie certezze. Logico perché la politica di Matteo Renzi, che puntava a costruire una sinistra moderna, non ha incontrato il favore degli elettori.

E quindi non c’è da stupirsi che a rivendicare il collegamento ideale con una sinistra liberale siamo rimasti in quattro gatti. D’altronde questa è la storia d’Italia: in piazza Venezia, ricordo, non c’era nessuno, vero?».

La “derenzizzazione” del Pd non la convince?

«Renzi ha commesso parecchi errori, ma ha il merito storico di aver trasformato la sinistra liberale, da sempre minoritaria, in un fenomeno di massa. Per la prima volta temi come, ad esempio, il lavoro autonomo o la libertà individuale sono diventati protagonisti dell’agenda della sinistra italiana.

“Derenzizzare” il Pd non significa soltanto togliere di mezzo un leader storico, ma rimettere in discussione la collocazione del partito nella cultura liberal-socialista, intravista per la prima volta al Lingotto da Walter Veltroni e diventata, appunto, maggioritaria con Renzi».

Cosa pensa del nuovo segretario, Nicola Zingaretti?

«La piattaforma che ha vinto il congresso non ha niente a che fare con quella di un Pd riformista, maggioritario, anticonsociativo. Stando alla mozione di Zingaretti, la sudditanza ideologica al neocapitalismo dei Governi del Pd, va superata in nome della riscoperta dell’anticapitalismo che torna cifra identitaria di una partito di sinistra».

Può spiegarsi meglio?

«L’idea è che oggi la contrapposizione non sia quella europeismo liberal-progressista contro populismo, ma sinistra contro neoliberismo, all’interno della quale il populismo sarebbe soltanto una febbre passeggera utilizzabile proprio perché attraversato da elementi di sinistra “anticapitalistici”.

Non è un caso che ciò che resta della vecchia sinistra, con parecchi esponenti del Pd, abbia sdoganato l’intesa con i populisti del M5s. Ma il problema è anche un altro».

Prego...

«Se ne è accorto perfino Romano Prodi: per una coalizione competitiva, in tempo di proporzionale, bisogna augurarsi che nasca qualcosa di nuovo accanto al Pd, cioè una forza liberal-moderata.

È proprio la virata a sinistra del partito che richiede la nascita di qualcosa di “centro” che purtroppo non si vede all’orizzonte. D’altronde se non si avvia una battaglia anti-proporzionale, recuperando la vocazione maggioritaria del Pd, lo schema a partito unico non funziona».

Nel frattempo ci sono le Europee. Come ci arriva il Pd?

«In modo caotico perché ovviamente non si è ancora compresa la vera divisione del campo. Non più quella tradizionale tra sinistra e destra, ma tra Europa sì oppure no, tra società aperta oppure chiusa.

Un discrimine che sta organizzando la competizione elettorale in tutta Europa da Emmanuel Macron a Zuzana Caputova che in Slovacchia ha messo assieme partiti di centrosinistra e di centrodestra per battere i populisti».




 

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