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Quei mille (e più) morti che rievocano il ’76: la pandemia miete vittime tra gli artefici della ricostruzione

4 minuti di lettura

UDINE. Mille (e più) morti. È il conto che finora il Friuli Venezia Giulia ha pagato, da marzo a oggi, in appena 9 mesi, alla pandemia da Covid 19. Ma mille sono anche le vittime che provocò il terremoto del 6 maggio 1976 (alcuni perirono pure a causa delle scosse di settembre).

Quel numero che oggi riecheggia sinistro, mille morti, non può non far ritornare alla memoria proprio l’altro grande trauma del Dopoguerra in regione, il sisma che cancellò interi paesi, da Gemona a Buja, da Majano a Venzone, e che inghiottì per sempre comunità e famiglie.



Analogie e differenze

Certo un parallelismo puro e semplice, tra le due disgrazie, non è automatico. Troppo diversi sono i contesti, troppi anni sono passati dal quel 1976 (per come è cambiata in modo veloce la società sembra un secolo, non 44 anni). E soprattutto allora il territorio - e solo quella parte di territorio - subì la furia dirompente della natura, che si scatenò la sera di giovedì 6 maggio. Adesso invece il Friuli è dentro una pandemia globale, che sta causando lutti e devastazioni morali, economiche e sociali in buona parte del pianeta.



La generazione della ricostruzione

Ma c’è un filo nero che unisce, giocoforza, il 1976 del sisma e il 2020 del Covid. Oggi il virus si sta portando via la generazione che contribuì a ricostruire quei paesi azzerati. Quegli uomini e donne, quei giovani padri e madri di famiglia, che all’epoca avevano 30, 40 anni, che dalle prime luci dell’alba del 7 maggio si rimboccarono le maniche, e a mani nude cominciarono a scavare tra le macerie.

Soccorsero i feriti, consolarono i loro vecchi, diedero una carezza ai figli e ai nipoti. E poi si misero al lavoro, spesso senza versare una lacrima, perchè i friulani difficilmente piangono. Un lavoro che durò tutta quell’estate e che fu poi interrotto dalle mazzate di settembre, ma che riprese non appena fu possibile.

Un lavoro di fatica di migliaia e migliaia di persone, che portò in pochi anni alla ricostruzione, vanto del Friuli e modello per tutto il Paese, anche se poi nessuno riuscì a replicare, in occasione di terremoti analoghi, quanto fatto dalle nostre parti.

Monsignor Battisti

«Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese»: da questa semplice frase, pronunciata dall’indimenticato arcivescovo di Udine del ’76, monsignor Alfredo Battisti in quell’armonica simbiosi tra Chiesa e popolo ferito, partì tutto il resto.

E gli artefici di quella splendida rinascita, oggi 70 enni, 80 enni, e magari anche più anziani, sono i più colpiti, i più bersagliati dal virus che non perdona. Eh sì, lo abbiamo imparato leggendo le fredde statistiche: il Covid 19 si accanisce sulle persone avanti con gli anni, su chi ha qualche “patologia pregressa”, come si dice in linguaggio medico.

Eppure si tratta spesso di uomini e donne che, senza il virus, avrebbero condotto serenamente la propria esistenza per altri anni ancora, magari raccontando ai loro nipoti proprio le storie del terremoto, la vita nelle tendopoli, pranzi e cene preparati dai soldati, gli aiuti internazionali, il vice presidente americano Nelson Rockfeller che atterrò con il suo elicottero per la visita ai Comuni disastrati.

E tante, tante, altre memorie di solidarietà, di fratellanza, di condivisione. Invece il Covid ha spezzato per sempre anche questo legame tra generazioni.

La dura realtà dell’autunno 2020

Se nella prima ondata, in primavera, il Friuli Venezia Giulia era rimasto, per fortuna, quasi ai margini della tempesta, che si stava abbattendo con violenza in Lombardia (abbiamo davanti agli occhi i camion militari che portavano via le bare dei defunti di Bergamo), tra ottobre e oggi il quadro è cambiato in peggio.

Fino all’estate i morti erano stati circa 350, adesso il doppio in 50 giorni. Una cifra che ieri ha toccato quota 1.059 con altre 24 vittime da piangere, praticamente una all’ora. Una lista infinita, che non sappiamo ancora quando esaurirà il suo carico di dolore.

Perchè la luce in fondo al tunnel non si vede. L’età media dei pazienti deceduti e positivi a Sars-Cov-2 è 80 anni, ed è analoga a quella del resto d’Italia. Le donne sono il 42,3%, quindi a morire sono di più gli uomini, con il restante 57,7%.

L’età mediana dei deceduti positivi al coronavirus è più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione, che è di circa 48 anni. Tra le altre caratteristiche, le donne decedute con il Covid hanno un’età più elevata rispetto agli uomini: per questi ultimi l’età mediana è 80 anni, per le donne 85.

L’addio senza nessuno accanto

Statistiche, appunto, ma dietro ogni numero c’è una persona ci sono una storia, una vita vissuta, un bagaglio di esperienze accumulate negli anni. E proprio i “caduti” del Covid, tra di loro consiglieri comunali dei tempi del sisma, volontari di Protezione civile, artigiani, commercianti, operai dei nostri paesi, da Tarcento a Nimis, da Gemona a Buja, alla Carnia e alla Pedemontana pordenonese, devono sopportare un’altra sventura a causa di questa infezione.

Al congedo dalla vita sono da soli, terribilmente da soli. In un letto di ospedale, attaccati a un respiratore, in terapia intensiva, oppure in una casa di riposo o nella loro abitazione. Ma non hanno accanto familiari e amici, perchè il Covid è contagioso.

Molto contagioso e si espande a macchia d’olio dove trova terreno fertile. E così l’ammalato non ha nemmeno il conforto di un ultimo abbraccio, di un’ultima parola. Un altro aspetto triste al quale ci ha costretto il virus, che sembra non mollare la presa, se non a costo di grandissimi sacrifici per tutta la società.

Il futuro

Prima o poi, presumibilmente con un vaccino efficace, questa pandemia finirà. Tutti si augurano quanto prima, ma gli esperti non ci fanno dormire sonni tranquilli. «Dicembre e gennaio saranno terribili», ha detto ieri uno di loro. In cuor nostro speriamo che per una volta si sbagli, perchè trascorrere Natale con il fardello di altre vittime potrebbe essere per tanti insopportabile.

Ma dunque che eredità ci lascerà la “tempesta perfetta”, il “cigno nero” del 2020? Il terremoto del ’76 ha cambiato il Friuli. Lo ha trasformato, da terra povera e di emigrazione a terra di manifattura e agricoltura di livello. Il vero boom economico, dalle nostre parti, arrivò tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, grazie alla ricostruzione e a tutto quello che portò con se.

La pandemia, invece, oltre a strapparci parte della generazione che ricostruì i paesi del “cratere”, ci restituirà, verosimilmente, un mare di incognite, di dubbi, di interrogativi. Come ci risolleveremo? Come ne usciremo? Sapremo recuperare lo spirito che nel ’76 animò un popolo, lo fece saldo e unito verso l’obiettivo di rinascere?

O prevarranno le divisioni, la stanchezza, la paura di non farcela? Servirebbe lo spirito di allora, anche oggi e domani, per rimettere la testa fuori dall’acqua, per archiviare questa durissima stagione. Lo dobbiamo a quei mille e più morti. —

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