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Primo lunedì di zona arancione a Pordenone: tavolini isolati dai nastri e desolazione in centro fra baristi e ristoratori

2 minuti di lettura

PORDENONE. Come un triste deja vù, Pordenone ripiomba in zona arancione con le conseguenze che questo colore comporta nella vita di tutti i giorni. Tra le principali, divieto di spostarsi dal comune di residenza, bar e ristoranti attivi solo per asporto. Se a queste regole si somma il fatto che il lunedì è da sempre, anche in periodi di normalità, una giornata “blue” (ovvero triste) con i negozi solitamente chiusi soprattutto la mattina, il gioco è fatto.

Poche persone a passeggio, baristi in attesa di qualcuno che si affacciasse alla porta per un caffè da asporto, negozianti soli che scambiavano qualche parola con i passanti e i conoscenti. Quel che terrorizza di più gli esercenti è che ci si possa abituare a questa situazione, a un centro “fantasma”, dimenticando la gioia e la socializzazione di bar pieni, di voglia di stare insieme.

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Roberto Grando del bar Isole Antille in corso Vittorio Emanuele ha aperto il bar per l’asporto, ma l’ha chiuso in tarda mattinata. «Ho fatto una cinquantina di caffè, ma per pranzo non sono aperto – spiega – perché c’è poca gente, i negozi sono chiusi e non ci sono commesse, gli uffici sono in smart working».

«C’è poca gente ma la luce è accesa – afferma Fabio Cadamuro dello 0434 Cafè e presidente Fipe –. Qualche prenotazione per pranzo c’è stata, ma i pomeriggi teniamo chiuso. Ci siamo io e mio fratello, almeno diamo continuità al servizio».

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«È stata una giornata insolita – riferiscono Enrico Ceolin e Matteo Bozzer dell’Arbat – ma ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Riteniamo giusto dare un servizio anche se non si guadagna. Sabato, invece, abbiamo lavorato benissimo».

I bar con l’asporto sono quasi tutti attivi in centro, ma c’è chi preferisce tenere chiuso. «Ho un’età in cui non me la sento più di tenere aperto in queste condizioni – spiega Silvano Stocca del Caffè Nuovo –. Preferisco chiudere e aprire non appena torneremo gialli e la gente potrà essere presente».

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Anche i ristoratori sono in ginocchio. «Noi non abbiamo mai abbandonato l’asporto – sottolinea Carlo Nappo della Catina in centro e del Podere dell’Angelo di Pasiano – ma questa situazione è una tristezza perché sta diventando la normalità. Noi continuiamo ad andare avanti con asporto e delivery. È giusto chiudere, se l’emergenza sanitaria lo richiede, ma allora diteci chiaramente come, quando e quanti soldi arrivano a noi imprenditori. È da febbraio che non guadagniamo: ormai un anno. Sì perché i ristori vanno all’azienda, non agli imprenditori: quei soldi servono per garantire continuità all’attività, ma dietro all’azienda ci sono persone che devono comunque vivere».

«L’asporto lo riserviamo solo nel fine settimana, venerdì, sabato e domenica – spiega Andrea Spina del ristorante Il Gallo – mentre il resto della settimana siamo chiusi. Questo perché utilizziamo prodotti deperibili e freschi e possiamo lavorare solo quando sappiamo di avere un congruo numero di prenotazioni».

Chi risente di questa situazione di incertezza e di chiusura dei bar è anche il commercio, soprattutto d’abbigliamento, che sta attraversando un periodo molto difficile, che nemmeno il periodo di saldi sembra invertire.

«La zona arancione è la morte del commercio – afferma senza mezzi termini Antonella Popolizio di Federmoda –. Domenica pomeriggio c’erano diversi negozi aperti, anche i miei, ma non c’era nessuno. Speriamo che questo sacrificio salvi qualche vita e aiuti a uscire da questa fase critica perché per l’economia e il settore è un’agonia».

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